La cultura del rischio non nasce da sola, ha bisogno di essere nutrita e coltivata. Ne parliamo con la storica e sismologa Emanuela Guidoboni
Le definizioni di ambienti sono numerose e assai ampie: indicano tutto ciò che circonda e con cui interagisce un organismo, comprende la componente biotica (dalle piante agli esseri umani) e quella non biotica, come il clima e la natura del suolo. Sono distinzioni utili, in fondo, solo ai diversi approcci scientifici allo studio: ecologia, diritto, chimica, biologia, agraria, economia, urbanistica. Una complessità disciplinare che non si riflette, però, nella percezione diffusa dell’ambiente. Si intende piuttosto aria, paesaggio, aree verdi, campi, boschi, montagne, fiumi e mari. Parole come protezione o monitoraggio conducono a un’idea di responsabilità e azione umana nel presente, tesa a contenere i danni e a garantire una fruizione dell’ambiente soddisfacente per la salute ed esteticamente bella: un sentire comune che, secondo la storica e sismologa Emanuela Guidoboni (autrice di Storia Culturale del Terremoto, Rubettino), “non sfugge all’idea di consumo e di diritto al benessere, ma è piuttosto lontana dal problema, ancora irrisolto, del rapporto fra società umane e natura, che si comprende nel lungo periodo”.
Lei pone il rapporto uomo-natura come centrale nel dibattito sull’ambiente: non è un tema proprio della filosofia o da salotti accademici?
Al contrario, penso dovrebbe coinvolgere tutti noi, portato all’attenzione in modo pressante dai mass media, trattato nelle scuole, approfondito nelle piazze e negli incontri letterari, posto in maniera incalzante agli amministratori pubblici. Proprio questo rapporto uomo-natura, distorto e miope, ha generato nei secoli una drammatica e quasi immutata storia di disastri ambientali: disastri che, per definizione, sono l’esito dell’interazione tra un fenomeno della natura e il mondo abitato. Prendiamo i terremoti: essi sono una manifestazione necessaria della vita della Terra, ci sono stati in passato e ci saranno in futuro. Eppure, ogni volta che se ne verifica uno, siamo sorpresi, si pone come un trauma o un danno inatteso. Questo perché si subisce l’effetto perverso della mancanza di prevedibilità e di prevenzione. Ci siamo assuefatti all’idea sbagliata che alla prevenzione si arrivi dopo un disastro, mai prima, come ragionevolmente dovrebbe. A questa trascuratezza si contrappone una storia sismica eccezionale, che registra la persistenza dei terremoti come carattere stabile di un ambiente: una storia che il mondo sismologico mondiale ci invidia, per ampiezza dell’arco cronologico considerato, oltre due mila anni, e qualità delle fonti. In Italia accadde in media un disastro sismico ogni 4 anni: qualche conclusione dovremmo trarla.
Che bilancio emerge dagli ultimi secoli, dal punto di vista degli eventi di origine naturale?
Un bilancio che suggerisce una storia lunghissima e ancora in corso, ma non assente dai manuali di storia. Dall’unità d’Italia (1861), ci sono stati 36 gravi disastri sismici, oltre a 86 terremoti di poco inferiori per impatto. Oltre 1.560 paesi hanno subito danni gravissimi, fra cui 20 città capoluogo; dall’inizio del Novecento abbiamo avuto più di 154.000 morti. Le cifre legate alla situazione idrogeologica sono altrettanto impressionanti: solo nell’ultimo secolo ci sono state 1.900 alluvioni con danni e le frane interessano oltre il 7% del territorio nazionale con alcune grandi frane tuttora attive. Una pioggia intensa rischia di essere considerata un evento estremo per gli effetti prodotti in aree già depredate dal cemento e dalla deforestazione e private di necessari interventi idrologici di tutela. E non dimentichiamo il Vesuvio: dal 1861 al 1944 ci sono state otto eruzioni importanti dalle conseguenze drammatiche e, anche se silenzioso da circa 76 anni, è un vulcano attivissimo. Le situazioni di rischio sono davvero tante, estese e riguardano milioni di cittadini italiani. Dagli studi degli ultimi trent’anni scopriamo che le aree a rischio sono sempre le stesse e questo faciliterebbe la possibilità e l’efficacia di interventi mirati.
Ci sono anche i disastri derivati dal rapporto con l’ambiente biotico dei virus e dei microbi, che si sono manifestati nei secoli con l’esplosione di epidemie e pandemie, simili a quella attuale del corona virus.
Oggi siamo meglio nutriti, più informati, più colti che in passato, ma l’attuale pandemia non ci ha risparmiato morti, dolori ed enormi perdite economiche, come nei secoli alle spalle. Essendo una medievista, vorrei ricordare la pandemia di peste causata dal batterio Yersinia Pestis, che decimò le popolazioni nel VI secolo, al tempo di Giustiniano; poi ancora alla metà del Trecento, quando perì circa un terzo degli abitanti dell’Europa. Come sappiamo da Boccaccio e da molte altre fonti, nel 1348 i cittadini abbienti si isolavano nelle ville in campagna, mentre nelle città e nei paesi i decessi erano tali da non garantire la sepoltura delle vittime. Ci sono miniature che attestano quell’affollamento di bare, un impatto con la morte che segnò la cultura di quegli anni e di cui abbiamo traccia nelle danze macabre negli affreschi di molte chiese. Non ci furono interventi finanziari dei governi, anzi: in Italia si continuò ad esigere le tasse perché, si affermava, le molte eredità avevano reso più ricchi i sopravvissuti. Ma nei campi nessuno lavorava più e la fame sterminava intere comunità. Poi, nel decennio successivo, ci fu la ripresa: demografica, edilizia e produttiva. Fra noi e quelle lontane pandemie ci sono democrazia e diritti civili, fra cui quello di cura. Tuttavia, possiamo ben vedere le fragilità del sistema Capitalocene, come molti studiosi lo definiscono a livello globale, nella crescita incontrollata delle differenze sociali, nel rischio di recessioni, non solo economiche, ma anche riguardanti la riformabilità del sistema stesso.
La relazione uomo-natura nella storia dei disastri apre a diverse riflessioni: quale ambiente emerge da questo punto di vista?
Un ambiente che ha subito grandi e violente trasformazioni, sfuggite di mano al controllo della razionalità e del buon governare, che, in ultima analisi, è la capacità di prevedere le conseguenze di determinate scelte. La popolazione italiana ha subito un numero enorme, senza uguali in Europa, di sciagure naturali, di fronte alle quali non sono mancate risposte forti, coraggiose. Ma, purtroppo, tendiamo a dimenticare.
Come intraprendere un nuovo corso?
Qui entra in campo la cultura del rischio, del tutto carente in Italia, che, come tutte le culture, non nasce e cresce da sè. Va formata, coltivata, incentivata. La cultura del rischio si basa su un pensiero positivo, è finalizzata a costruire un futuro più civile, ripartendo, però, con umiltà, dalla conoscenza. Se pensiamo a come sono recepiti i disastri naturali nella nostra cultura, ci spieghiamo questo ritardo: nei mass-media sono eventi casuali, cronaca, fatti del presente, e come tali poi dimenticati. Nella scuola i disastri naturali sono ignorati, anche se si parla di educazione ambientale. Nelle università, sedi per eccellenza della formazione della classe dirigente e dei professionisti (fra cui giornalisti e insegnanti), non c’è possibilità di conoscere la storia dei flagelli del passato, di sapere quali e quanti ci sono noti, come sono valutati dal punto di vista scientifico, perché accadono e quale sia l’interazione umana con i caratteri naturali di un ambiente. I temi sono frantumanti in insegnamenti non correlati, in ottiche di studio specialistiche sì, ma con obiettivi diversi e non comunicanti. La formazione, a mio parere, è un nodo cruciale: sul tema dei disastri naturali dovrebbe affrontare la multidisciplinarietà e la trasversalità dei saperi, e non rispondere ad un modello accademico autoreferente, per altro, già in crisi alla fine del medioevo. La cultura del rischio nei confronti dell’ambiente ci porterebbe a nuove consapevolezze civili, a nuove spinte culturali e a nuove istanze politiche.
Che futuro avrà l’Italia, esposta a terremoti, frane, alluvioni, pandemie? In che modo la cultura del rischio può entrare in questo flusso dinamico?
Il futuro sarà quello che, più o meno consapevolmente, noi scegliamo che sia. Non mancano le conoscenze tecniche e scientifiche, ma una strategia di prevenzione chiara e condivisa dalla popolazione. Ci sono palliativi e interventi parziali, ma non c’è un piano di prevenzione complessivo, dibattuto pubblicamente e nella sua interezza.
Perché a suo avviso?
Penso che la ragione principale sia la mancata domanda di sicurezza da parte della popolazione e delle amministrazioni locali. Ma tale domanda si forma se si conoscono i rischi a cui si è esposti. È un serpente che si morde la coda.