La richiesta degli agenti per risolvere il caso di un rapinatore a Portland: mettere sotto controllo tutti i profili riconducibili a cellulari transitati nella stessa zona. Le proteste: “Una violazione dei diritti costituzionali”
Senza bisogno di andare a scomodare la fantasia di Philip K. Dick e le futuribili visioni dei Precog di “Minority Report”, la polizia americana ha intenzioni molto serie nei confronti della tecnologia e, soprattutto, nella immensa quantita di informazioni che essa veicola. Tanto che lo scorso marzo l’Fbi, attraverso un mandato del tribunale, ha intimato a Google di consegnare tutti i dati utenti che potessero rivelarsi utili a risolvere il caso di un rapinatore seriale a Portland.
Tom Cruise in “Minority Report”,
Inutile dire che il gigante di Mountain View non ha cedeto e che la richiesta è poi caduta nel vuoto. Ma, dopo il polverone sollevato dall’indagine di Associated Press pochi giorni fa, i servizi di geolocalizzazione degli utenti e la minaccia alla privacy che essi rappresentano tornano a far discutere.
La richiesta del Fbi
Alla fine, i dati di Google non sono stati necessari per catturare Travis Card, sospettato di 38 anni che si è dichiarato colpevole per una serie di rapine a mano armata avvenute in diverse località di Portland, nel Maine. Eppure la richiesta da parte del Fbi rimane, così come le pressioni ripetute per ottenerne la collaborazione del motore di ricerca.
Nomi, indirizzo, cronistoria degli spostamenti e attività dell’account di tutti quegli utenti che, tra il 20 e il 29 marzo, si fossero trovati in due o più luoghi dove sono avvenute le rapine, in un intervallo di tempo di 30 minuti da quando si fosse compiuto il crimine. Una richiesta specifica giustificata con l’obiettivo di individuare il responsabile nel minor tempo possibile. Motivo più che sufficiente per il giudice che ha firmato il mandato invitando, inoltre, Google a mantenere il segreto sulle indagini per 180 giorni.
Alcune delle zone interessate dall’indagine del Fbi (Forbes)
Tutto perfettamente legale, dunque. Semplice caso di un “warrant” rivolto questa volta non a una telco, ma a una tech company. Non proprio, in realtà, dal momento che, invece di poche schede telefoniche, questa volta si richiedeva il controllo di centinaia, forse migliaia, di profili in uno spazio di oltre 45 ettari.
Una “violazione dei diritti” che la Costituzione garantisce al cittadino e un esempio di “ricerca indiscriminata su vasta scala”, secondo alcuni. Ma anche un tentativo di “approfittarsi dell’ingnoranza dell’utente medio del web” che non sa quali informazioni vengono raccolte su di lui dalle grandi realtà che governano la rete.
I precedenti
Eppure non è la prima volta che capita un caso simile. Come raccontato dal portale WRAL.com, la polizia di Raleigh nel North Carolina ha cercato più volte di ricorrere a questo sistema per risolvere casi “difficili”.
È successo per l’omicidio di Adrian Pugh, avvenuto nel giugno 2015. I testimoni videro una figura illuminare con la torcia del cellulare il terreno vicino all’abitazione prima di fuggire. E qualcosa di simile è accaduto per il caso del tassista Nwabu Efobi che la telecamera di sicurezza riprese a litigare con il proprio assassino. In entrambi i casi si è pensato di ricorrere alle informazioni di Google, tracciando uno spazio “sensibile” che identificasse la zona del crimine e convincendo poi un giudice della contea di Wake ad emettere un mandato che obbligasse il motore di ricerca a fornire l’identificazione di ogni account presente.
Ovviamente, anche qui, Google non si è piegata alla “nuova frontiera” delle indagini digitali. E ha salvaguardato la segretezza di quei dati che oggi fanno gola a molti. E non solo per motivi commerciali.