Intervista a Luca Gerini, a capo dello storico gruppo mondiale di consegne a domicilio di fiori e piante, attivo in Italia con una rete di 1.400 fioristi. «L’Italia è tra i primi quattro produttori al mondo, ma non tra i maggiori distributori»
Sardegna andata e ritorno. Luca Gerini è nato a Carbonia, nel sud dell’isola, e nel corso della sua carriera ha lavorato per anni all’estero, guidando l’e-commerce di società come il gruppo Louvre Hotels, la guida Michelin e Stroili. Dal 2021 è a capo delle attività della storica società di consegna di fiori a domicilio, Interflora, in Italia, Spagna, Portogallo e Romania. Nonostante i continui viaggi in Europa, circa dieci anni fa ha deciso di tornare a vivere nella sua isola. «Vivo a Cagliari e ho voluto portare qui una parte dell’azienda per cui lavoro», racconta.
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«Oggi diversi grandi gruppi sono diffusi, non hanno una sola sede. È così anche per Interflora, per la quale ho contribuito a trasferire in Sardegna i reparti di customer service e digital marketing, mentre altre unità sono tra Roma, Milano e Madrid». Questa scelta, sottolinea Gerini, non ha però origine dal suo ruolo in Interflora, storico gruppo internazionale di consegna di fiori a domicilio, che oggi conta su 58mila punti vendita in oltre 150 Paesi. «Sono tornato in Sardegna da circa dieci anni e anche nelle due società per cui ho lavorato in precedenza, Michelin e Stroili, avevo chiesto di spostare uno o più dipartimenti della compagnia qui».
Perché?
Dopo aver vissuto vent’anni all’estero, ho sviluppato una particolare forma di campanilismo: ogni volta che ho l’occasione di portare qualcosa di utile a casa e trovare risorse e persone valide nella mia terra d’origine, provo a farlo. Questo significa anche offrire a un sardo che abita altrove la possibilità di tornare a lavorare dov’è nato.
“Cagliari ha la propensione a diventare una smart city, ma non lo è ancora. Per fare 500 metri si prende l’auto”
Quale risposta ha trovato finora a Cagliari?
Da un lato, questa è una delle città italiane con il più alto numero di laureati senza lavoro, indice che ci sono molte potenzialità, ma ancora molto lavoro da fare. Dall’altro, la Sardegna è anche una regione con un capoluogo da 150mila persone e una densità di popolazione molto bassa. Di conseguenza, in determinati campi di eccellenza, come quello del marketing digitale, i talenti sono numericamente più bassi rispetto a quelli di una metropoli, quindi molto ambiti e più difficili da reclutare.
A proposito di digitale, il capoluogo sardo porta avanti il suo progetto di smart city. A che punto è?
Cagliari ha la propensione a diventare una smart city, ma non lo è ancora. Per fare 500 metri, ancora si prende l’auto. Allo stesso modo, non è possibile dire che la Sardegna sia una regione smart. In un territorio come questo, essere smart significa offrire servizi e infrastrutture intelligenti, efficienti e sostenibili non solo agli abitanti, ma anche ai turisti. C’è una carenza anche culturale, che riguarda tutto il Paese: la coscienza civica necessaria si sta sviluppando nelle nuove generazioni, ma è lontana dalla piena applicazione visibile nelle capitali del Nord Europa.
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Eppure, la Sardegna è la terra che ha dato i natali al web italiano e a Tiscali.
La regione può contare su un tessuto sociale ed economico predisposto al mondo della startup e, più in generale, alla capacità di fare impresa, che implica competenze e capacità. Ha una storia importante da questo punto di vista, come testimoniano anche i risultati del centro di ricerca Crs4. È comunque importante parlare chiaro ai giovani che vogliono diventare imprenditori.
Cosa vorrebbe dire loro?
Che questo termine oggi abbraccia un significato più ampio: essere imprenditore non significa soltanto fondare una società, ma dare il proprio contributo per far evolvere e crescere l’azienda per cui si lavora. Soprattutto, non tutti possiamo avere successo nell’imprenditoria, come predisposizione e carattere, ma per capirlo è giusto provarci e cercare di diventarlo.
Non sempre però è semplice individuare quali siano le idee con il maggior potenziale, specialmente nelle fasi iniziali di un progetto.
Ho avuto modo di lavorare con incubatori e startup cagliaritani e ho maturato la convinzione che, in Sardegna come al Sud Italia, spesso ci sia un’eccessiva facilità nell’ottenere i fondi per intraprendere un percorso aziendale.
“Fare startup non diventi il nuovo parcheggio dopo l’università, in attesa di trovare di meglio”
Un’opinione che potrebbe risultare impopolare, in un Paese ancora indietro sul sostegno alle realtà innovative.
Mi spiego meglio. In aree d’Italia in cui il costo della vita è molto basso, i vari startup voucher a fondo perduto rischiano di non motivare chi riceve le risorse a fare un’impresa con l’intento di farla crescere, ma a fare impresa solo con la scusa di trovarsi un lavoro. In altre parole, si rischia di non dare il giusto peso ai fondi ricevuti: fino al momento in cui ci sono va tutto bene. Quando le risorse terminano, pazienza, l’importante è aver potuto vivere per un periodo di tempo più o meno lungo con quei soldi.
Cosa proporrebbe per migliorare questa situazione?
È fondamentale costruire una mentalità rigorosa che porti a tenere presente come il capitale ricevuto, anche se sono soldi gratis, non appartiene a me e occorre impiegarlo esclusivamente allo scopo di creare, far crescere e sviluppare la società, vendendo il prodotto. Si tratta di un processo di formazione ben preciso, basato su un piano di crescita. Fare startup non deve diventare il nuovo parcheggio dopo l’università in attesa di trovare di meglio da fare.
Dunque, anche una questione di tempistiche.
Si rischia un ulteriore ritardo nelle tappe di crescita professionale che il Paese non può permettersi, considerando che l’età media per completare un percorso di laurea specialistico in Italia è già molto più alta di quella in diversi Stati europei.
Analizzando la situazione nel suo attuale settore, quello florovivaistico, l’innovazione che peso ha?
Non è di certo un comparto che brilla sotto questo aspetto. Il mercato è gestito prevalentemente dall’Olanda e il tessuto portante di questo ambito, costituito dai fioristi, è in continua decrescita. L’Italia è tra i primi quattro produttori di fiori al mondo, ma non tra i maggiori distributori. Nel 2019, nel nostro Paese, c’erano 15mila fioristi, nel 2024 saranno ottomila. È complicato pensare che possa essere un mestiere con un ricambio generazionale.
“Il quick commerce di Deliveroo, Glovo e Just Eat è stato inventato da Interflora più di cento anni fa”
Interflora ha comunque puntato in maniera decisa sul digitale e sull’e-commerce.
È nostro compito cercare di dare una svolta al settore. L’azienda è centenaria, fondata nel 1908 da Max Hubner, un fiorista berlinese che ha avuto l’idea di consegnare i fiori a cavallo nei villaggi vicini. Con il passare degli anni, vari fioristi hanno deciso di associarsi e collaborare. Da questo primo nucleo di persone è nata Interflora. Oggi, stiamo facendo quello che Booking ha fatto per il mondo degli hotel: favorire il passaggio digitale al mercato.
Con quali iniziative incentivate questo cambiamento?
Il passo più importante è stato il lancio della piattaforma tecnologica, in grado di ottimizzare i sistemi di gestione del merchandising, legati all’intelligenza artificiale, l’analisi e la definizione del prodotto. Le decisioni prese hanno comunque dato i loro frutti: rispetto al 2019, oggi le vendite sono aumentate del 50% e, soprattutto, quando nel 2020 sono entrato in Interflora Italia, era una società in perdita. Oggi Interflora è un’azienda in salute ed è una società e-commerce 4.0.
Un aspetto importante per un’azienda che ha sempre puntato sulla rapidità di consegna.
Nel 70% dei casi, i clienti si rivolgono a noi per ordini da completare in giornata, all’ultimo minuto. Sulla base di questo concetto, sono nate numerose aziende, da Just Eat, a Deliveroo a Glovo. In realtà, grazie a una rete di fioristi organizzata e capillare, quello che oggi viene definito come quick commerce è stato inventato da Interflora oltre cento anni fa.