La serie di Netflix tratta dall’omonimo manga e anime ha raccolto un successo da record per la piattaforma. Ma cosa c’è dietro? Ce lo spiega Diego Castelli, uno dei massimi esperti italiani di telefilm
Quando si decide di produrre un live action, cioè una versione in carne e ossa di una storia originariamente pensata per un altro mezzo (tipicamente il cartone animato o il videogioco) si punta a cogliere un’opportunità ma ci si prende anche un rischio.
L’opportunità è quella di raggiungere facilmente una fetta di pubblico che già conosce il materiale originale, superando di slancio la difficoltà di far conoscere un nome completamente nuovo. Il rischio è quello di mettere in scena una storia che, per mille motivi, finisca con l’infastidire proprio quel pubblico, sempre capace di rigettare la nuova versione della storia che già ama.
Netflix ne sa qualcosa: di recente (era il 2021), il tentativo di proporre una serie live action di Cowboy Bebop, amatissimo anime di fine anni Novanta, naufragò sotto il fuoco di fila di recensioni negative, sberleffi, veri e propri insulti, e un generale disinteresse. Si comprendono, dunque, i timori legati a One Piece, serie tratta da quello che, al momento, è probabilmente il manga (e anime) più famoso del mondo, certamente il più famoso fra quelli ancora in produzione. Ideato da Eiichirō Oda nell’ormai lontano 1997, One Piece è una storia di pirati e di grandi tesori, ma anche di personaggi bizzarri, creature fantastiche, ragazzini gommosi che si allungano, amicizie e amori, battaglie, comicità, e iperboliche stramberie. A fronte dei tentativi falliti del passato e del presente (forse il più recente è il film sui Cavalieri dello Zodiaco, altro flop senza appello), i moltissimi fan di One Piece si chiedevano se valesse la pena attendere trepidanti, o se invece fosse meglio prepararsi all’ennesima delusione.
Netflix, però, qualcosa aveva imparato.
Il boom che non ti aspetti
Debuttata lo scorso 31 agosto con i primi otto episodi, One Piece ha raccolto in brevissimo tempo un successo roboante. Non solo perché è diventata la serie più vista della piattaforma in 84 paesi contemporaneamente, battendo i precedenti record di due titoli come Stranger Things e Mercoledì, ma anche perché è riuscita a raccogliere un inaspettato favore sia da parte del pubblico sia da parte della critica specializzata, in una comunanza di giudizi che non si vede così spesso su internet. In pochi giorni, e pur con le ovvie eccezioni, la rete si è riempita di commenti e recensioni entusiaste, sia da persone che non conoscevano nulla della storia, sia (più rilevante) dai fan della One Piece originale, fra i quali il sentimento prevalente era proprio la sorpresa per la capacità di Netflix di costruire, forse per la prima volta in tempi recenti, un live action che funziona. Per alcuni, addirittura, il migliore, se non l’unico, adattamento occidentale meritevole di una produzione originale giapponese. A leggere questi dati senza conoscere nulla dell’originale e senza aver visto nemmeno un episodio della serie Netflix, verrebbe da pensare a un trionfo di qualità, un prodotto semplicemente così sopra la media, da essere pronto per rivaleggiare coi grandi capisaldi della serialità, da Game of Thrones a Breaking Bad.
In realtà, le cose non stanno esattamente così, e il successo di One Piece ha in sé una caratteristica peculiare che ci dice molto del mercato e forse perfino della società in cui si è inserita.
Il pregio decisivo: la fedeltà
Al netto della difficoltà (meglio, impossibilità) di dare giudizi realmente oggettivi quando si tratta di analizzare un prodotto culturale, non ci sono grandissimi dubbi sul fatto che One Piece sia una serie scritta con un certo rigore, che faccia un lavoro difficile ma riuscito nel condensare un certo numero di storie cartacee in pochi episodi, che riesca a mettere in mostra una buona fetta dei 16-18 milioni di dollari di budget per ogni episodio, cifra fra le più alte mai messe in campo per una serie tv.
È uno show colorato, simpaticone, ricco di una creatività debordante soprattutto per chi non conosce l’originale e si trova di fronte, tutto di colpo, un mondo così ampio e variopinto. Allo stesso tempo, una buona fetta di quelle famose recensioni positive dà alla serie una piena sufficienza, senza considerarla però un grande capolavoro, per via di alcune semplificazioni forse inevitabili e per una messa in scena che, a seconda del punto di vista, può sembrare proprio “giusta”, oppure fin troppo pupazzosa, artefatta, da cosplayer in un parco di divertimenti. Ed è qui, nella consapevolezza che una larga fetta di pubblico ha amato anche dettagli che in altre serie sarebbero stati oggetto di scherno, che arriviamo a un singolo elemento, il pregio di One Piece più citato e sottolineato da chi ha scelto di elogiare la serie online, ovvero la sua fedeltà all’originale.
Anche il concetto di fedeltà e di aderenza a un modello già prefissato è scivoloso. Nel passare da un mezzo all’altro, dalla pagina al cartone animato al live action, One Piece impone scelte, riflessioni e soprattutto compromessi a chi cura l’adattamento (nel caso specifico, Steven Maeda e Matt Owens), e chi guarda può ritenere più o meno riuscito quel passaggio a seconda del proprio gusto. Statisticamente però, è ormai palese che la maggioranza del pubblico ha compreso e apprezzato l’intenzione in sé e per sé di rimanere il più possibile fedeli all’opera originale. Che si tratti di scegliere attori e attrici somiglianti alle controparti disegnate, di mantenere fissi i principali snodi della vicenda, o di impegnarsi per cogliere l’atmosfera, i temi e gli approcci generali del manga (fino alla ricostruzione di specifiche inquadrature basate su famose tavole del manga), One Piece ha convinto i suoi fan proprio con quell’impegno, che molti online traducono con il simbolo del cuore. One Piece è una serie che ha cuore, perché mostra un amore rispetto al materiale originale che molti altri live action (questa è l’accusa) avrebbero tradito in nome di sperimentazioni fini a sé stesse, inefficaci, non richieste.
Il marketing di Netflix
In questo processo, Netflix ha mostrato una furbizia non da poco, perché con pochi tocchi ha saputo indirizzare il favore del pubblico anche prima dell’uscita della prima puntata. Al netto della decisione iniziale, cioè appunto quella di discostarsi il meno possibile dal manga, Netflix ha saputo comunicare le sue scelte nei modi e nei tempi giusti. Due elementi su tutti: il trailer e il coinvolgimento del creatore di One Piece, Eiichirō Oda.
Il trailer uscì nel momento in cui i timori degli spettatori erano all’apice, quando molti temevano di stare per vedere la solita versione realistica e drammatica di un’opera pensata per tutt’altro stile. Il trailer, colorato, esagerato, volutamente clownesco, instillò la prima, decisiva speranza: forse questa One Piece è gustosamente matta come l’originale.
Decisivo, poi, il fatto che lo stesso Oda ci mettesse la faccia. È bastato che l’autore giapponese scrivesse un tweet in cui assicurava di essersi speso ogni giorno con la produzione, direttamente sul set, per garantire autenticità al prodotto, da predisporre i fan a un’accoglienza affettuosa e nostalgica della serie.
All’uscita degli episodi, molto più che in passato, gli spettatori erano pronti a voler bene a One Piece, molto più che a cercarne con la lente d’ingrandimento i difetti, che pure c’erano.
Un modello per il futuro?
Cosa insegna One Piece? Insegna una lezione teoricamente banale, ma che forse così banale non è, visto che finora è stata così spesso disattesa. Insegna cioè che se decidi di fare appello all’amore delle persone per una certa storia, poi quell’amore va rispettato. E il rispetto, in questo caso, significa non cambiare quella storia, presentarla così com’è, solo in una forma nuova che però non ne tradisca in alcun modo i valori e gli stili di fondo. Se questa cosa era già abbastanza chiara con fumetti e cartoni occidentali (pensiamo ai supereroi), ora pare evidente che lo stesso tipo di approccio va riservato anche all’animazione giapponese, anche quando si corre il rischio della carnevalata posticcia. La carnevalata posticcia, se fatta col famoso cuore, funziona ugualmente, anzi funziona di più, dove “funziona” è un termine che riguarda la soddisfazione di un largo pubblico e il profitto del produttore, al netto di qualunque valutazione strettamente artistica.
Insomma il messaggio forte e chiaro che arriva dal pubblico è “meno esperimenti e più rispetto per l’originale”, almeno nell’ambito di questo genere di adattamenti.
A questo punto ci si potrebbe chiedere, con un salto logico forse azzardato, se questo messaggio rispecchia non solo un gusto, ma anche una specifica predisposizione della società attuale verso un certo tipo di prodotti, o di trattamento di altri prodotti. Se guardiamo al tempo in cui viviamo, fatto di grandi incertezze, di guerre e pandemie, di problemi economici e crisi climatiche, di scarsa fiducia in un futuro quanto mai precario, forse non dovrebbe stupirci il successo di una serie tv tratta da un manga del 1997, che racconta un mondo fantastico che molti conoscono da un’infanzia a cui guardano con rimpianto, e che lo racconta nello stesso modo, consegnando al pubblico otto episodi che, invece di scompaginare e disordinare questo presente già così caotico, riportano le persone a un tempo quasi magico, in cui tutto funziona, in cui tutto è esattamente com’era e come dovrebbe essere. Per mere ragioni commerciali, e per l’impressione che di rassicurazione e nostalgia ci sarà ancora bisogno in futuro, non ci stupiremmo se One Piece avesse dato il via a una nuova era degli adattamenti. Un’era conservativa, forse perfino reazionaria, ma che probabilmente risponde meglio ai bisogni di guarda e paga.