Un post di denuncia della tennista Peng Shuai accusa l’ex vicepremier di violenza sessuale
Il profilo Weibo – uno dei social network più usati in Cina – della tennista Peng Shuai, 35 anni, è ancora attivo, ma la possibilità di postare è stata bloccata dalla piattaforma. Da anni il movimento MeToo in Cina cerca senza troppo successo di squarciare il velo di indifferenza e la censura da parte della dittatura comunista. Il caso degli scorsi giorni potrebbe essere diverso, dal momento che coinvolge una sportiva di fame internazionale e una figura politica di primo piano di Pechino, l’ex vicepremier Zhang Gaoli, 75 anni. Nei giorni scorsi dal profilo ufficiale Weibo di Peng Shuai è stato pubblicato un post di denuncia in cui si accusava l’uomo di violenza sessuale. I fatti risalirebbero a diversi anni fa. Nel giro di breve, il post è stato oscurato dalla piattaforma, sulla quale secondo il New York Times sarebbe addirittura impossibile ricercare la parola tennis. Conseguenza che, se non si trattasse di un caso così delicato, sarebbe quasi comica.
Il MeToo in Cina
La notizia è riuscita a superare i confini nazionali e a riaccendere il dibattito sulle molestie e violenze sessuali subite dalle donne in tutto il mondo. Gli screenschot del post circolano ancora e mettono sotto accusa una delle figure più importanti del panorama politico cinese. Tra il 2012 e il 2017 Zhang Gaoli è stato membro del Comitato permanente del Politburo del partito. Tra lui e Pang Shuai, come si legge sulla stampa, c’è stata una relazione altalenante di circa dieci anni (come ricorda la CNN) ed è la stessa tennista ad aver ammesso di non poter portare prove schiaccianti a favore della propria denuncia. La censura immediatamente successiva al post ha però suscitato sdegno da parte degli attivisti e dell’opinione pubblica internazionale.
Nato negli Stati Uniti diversi anni fa, il movimento #MeToo ha rappresentato un momento di denuncia e liberazione per molte donne, che hanno trovato il coraggio di denunciare umiliazioni, molestie e violenze sessuali. Anche in Cina, dove il movimento ha preso il nome di #WoYeShi, diversi casi sono stati denunciati negli anni, ma il controllo dei media e delle vita in generale sotto una dittatura comunista ha reso il dibattito decisamente meno libero e franco che altrove. Nel paese guidato da Xi Jinping tutto era partito con accuse mosse sempre tramite social network a un professore dell’Università di Pechino. In un’epoca in cui si parla molto di responsabilità dei social e delle Big Tech nella formazione dell’opinione pubblica, notizie come questa rendono il quadro ancor più complesso.