All’Istituto Italiano di Tecnologia Alessandra Sciutti coordina un progetto dedicato allo studio dei meccanismi sensoriali, motori e cognitivi alla base dell’interazione umana. L’obiettivo? Costruire robot in grado di interagire in modo naturale con gli uomini. Startupitalia l’ha intervistata
Fiducia, adattabilità, comprensività, collaborazione: sono i valori alla base di ogni rapporto umano, dal lavoro alla vita privata, ma sono gli stessi che in un futuro non troppo lontano guideranno la relazione tra uomo e robot. Parola di Alessandra Sciutti, ricercatrice presso l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, dove è responsabile dell’unità CONTACT – Cognitive Architecture for Collaborative Technologies. Un team di circa venti persone, altamente multidisciplinare, in cui ingegneri biomedici, come lei stessa, collaborano con esperti di computer science, filosofia, scienze cognitive, psicologia e neurofisiologia. Come “compagno di scrivania” hanno iCub, robot umanoide ideato dal direttore scientifico dell’IIT Giorgio Metta, con cui lavorano ogni giorno cercando di… capirsi sempre di più.
Come è possibile rendere comprensivo un robot?
“Indaghiamo sulla capacità degli esseri umani di collaborare tra loro. L’uomo, fin da piccolo, è naturalmente intuitivo e predittivo: sa capire come sta l’altra persona e sa come agire per aiutarla. Basta uno sguardo, oppure un gesto, per capirsi. E’ quella forma di comprensione muta che permette all’uomo di andare al di là di ciò che vede, da cui poi dipende anche la capacità decisionale. Questo è ciò che oggi manca alle tecnologie, dai robot agli assistenti vocali, per quanto siano sempre più evolute. Partendo da meccanismi semplici e ispirati al comportamento dei bambini, insegniamo ai robot come intuire, analizzando il movimento degli occhi, i gesti e le espressioni del viso dell’altra persona, quale oggetto essa desideri e in che modo questo vada maneggiato, oppure quale azione l’altro stia per compiere o di che umore sia. Dotare il robot di un modello cognitivo simile permetterà alla macchina di diventare sempre più leggibile e predicibile, in maniera naturale”.
Che cosa cambierà rispetto ai robot attuali?
“Nel settore industriale, uno dei campi in cui sono più diffusi, i robot sono macchine di grandi dimensioni, spesso chiuse all’interno di gabbie in modo che l’uomo non possa avvicinarsi, perché, una volta impostate, non bisogna interferire. In futuro, invece, il robot dovrà poter affiancare il lavoratore e intervenire in base agli accadimenti, modificando le sue azioni. La fatica della pianificazione non ricadrà più interamente sulle spalle dell’uomo. Questo è il cambio di paradigma a cui stiamo lavorando: si parla di cobot, ovvero di collaborative o cooperative robot, per sottolineare la capacità di collaborazione e comprensione reciproca. La macchina sarà in grado capire che cosa serva al partner o quale sia il suo livello di stanchezza e saprà prevedere ed intervenire per prevenire possibili incidenti”.
Oltre all’industria, in quali altri campi potrà trovare applicazione un robot collaborativo?
“Ci sono molte prospettive per quanto riguarda la robotica riabilitativa e quella assistiva. Nel caso della riabilitazione stiamo studiando come fare in modo che la macchina possa adattare l’esercizio proposto alle specifiche esigenze del paziente. Non dovrà solo rilevare la performance con cui il compito viene completato, ma anche capire come l’individuo sta vivendo l’esperienza di riabilitazione, analizzando le sue espressioni facciali e il suo comportamento. A questo punto il robot saprà scegliere la terapia migliore, adattandola come farebbe un buon terapista”.
E per quanto riguarda la robotica assistiva?
“In questo caso possiamo pensare di supplire a determinati deficit personali grazie ai robot, che in un futuro più lontano potrebbero essere sempre più di supporto agli anziani, fino a diventare anche collaboratori domestici. Per raggiungere questo obiettivo cerchiamo di rendere i robot consapevoli di come noi percepiamo il mondo e di come il nostro cervello si arricchisca continuamente sulla base delle esperienze passate. Questo è l’obiettivo specifico del progetto di ricerca wHiSPER, finanziato dal Consiglio europeo per le Ricerche (Nel 2018 Alessandra Sciutti è stata tra le vincitrici di uno Starting grant, un prestigioso finanziamento elargito dall’European Research Council (ERC), ndr)”.
A che punto è la ricerca sulla robotica?
“Negli ultimi 10 anni sono stati fatti passi avanti incredibili. Ci sono robot in grado di compiere movimenti molto agili, molto simili a quelli delle persone o degli animali. Anche per quanto riguarda l’Intelligenza Artificiale, sono stati messi a punto algoritmi in grado di battere le migliori menti umane in campi specifici, come per esempio nel gioco degli scacchi. Ma bisogna ancora lavorare sulla capacità predittiva e adattiva, migliorando l’interazione e il rapporto di fiducia con l’uomo. Il robot sarà così in grado di restituire dei feedback alla persona, facendole capire se stia compiendo un’azione corretta, per esempio, o come debba eventualmente migliorarla. Allo stesso tempo abbiamo notato che di fronte al robot umanoide anche l’uomo diventa più comprensivo e più disposto ad accettare che anche la macchina possa fare errori. Inoltre, studiando i meccanismi dell’attivazione neurale, emerge che un robot, quando riproduce gli aspetti salienti del comportamento umano, può avere lo stesso effetto, ossia una simile attivazione neurale, di quello di un essere umano”.
Qual è il sogno della ricerca?
“In futuro il robot imparerà sempre più a conoscere la persona con cui collabora e saprà agire in base ai suoi gusti, alla sua personalità, al suo stato d’animo. Già adesso, per esempio, iCub è in grado di insegnare yoga adattando gli esercizi alla capacità di esecuzione individuale. Il sogno, anche se in un futuro molto remoto, è quello del robot maggiordomo che impara a conoscerci e sa prevedere di che cosa abbiamo bisogno. Se si supera questa barriera della capacità di capirsi, i robot diventeranno davvero assistivi nella vita quotidiana”.
Il robot sostituirà la persona, come molti temono?
“La visione è quella di un robot che coopera con l’esperto. La collaborazione è molto più promettente e fruttuosa rispetto alla sostituzione, che non è una soluzione vincente. Nel campo della riabilitazione, per esempio, grazie all’aiuto del robot, il terapista potrà seguire più pazienti, anche da casa, grazie al monitoraggio della macchina. Lo stesso discorso vale per l’insegnamento, dallo sport alla scuola. Il robot non starà in classe da solo con gli studenti, ma sarà di supporto per rendere ripetibile un certo tipo di training. Così nell’industria: da un lato ci si potrà avvalere dei vantaggi di ripetibilità, accuratezza, infaticabilità offerti dalla macchina, dall’altro l’essere umano contribuirà con la sua creatività, adattività e capacità di reazione agli imprevisti.
Quale deve essere il giusto approccio?
“Soprattutto prima dello scoppio della pandemia c’era molta preoccupazione e c’è stata una comunicazione catastrofica rispetto ai robot. Nei media si dibatteva di problemi legislativi ed etici come se un’orda di robot senzienti stesse per invadere le nostre case da un momento all’altro. Sono questioni su cui è giusto riflettere, ma tenendo presenti i reali orizzonti temporali. La visione deve essere quella di una nuova rivoluzione tecnologica. Le macchine intelligenti porteranno notevoli cambiamenti: bisognerà limitare gli aspetti negativi e valorizzare quelli migliorativi. Certo, si dovranno adeguare le competenze, come è già successo nel caso del computer. Se prima lo sviluppo dei software sembrava una conoscenza riservata a pochi, oggi si studia coding già alle elementari. C’è stato un processo di democratizzazione dell’informatica e io mi auguro che lo stesso possa avvenire con la robotica”
Con il suo gruppo è stata testimonial per Barbie Ingegnere Robotico su Barbie magazine (Mattel) per promuovere le discipline STEM tra bambine e ragazze. Qual è stata la sua esperienza?
“Io sono stata fortunata perché anche in Paesi dove la gender equality non è fortissima ho lavorato in un team capeggiato da una donna, come in Giappone, a Osaka. Lo stereotipo però è ancora molto radicato. Con i colleghi cerchiamo di promuovere attività e incontri con i bambini, che possano normalizzare la situazione. Come non esistono giochi per maschi e femmine, lo stesso deve valere per le discipline scientifiche. Vogliamo far arrivare il messaggio che è una strada percorribile. Tra l’altro, maggiore è la diversità all’interno di un gruppo di lavoro maggiore è la probabilità di trovare soluzioni ai problemi. E non parlo solo di genere, ma anche di origine, età ed esperienze di vita in generale: il confronto di storie diverse serve a uscire dagli schemi”.
Da bambina lei voleva diventare una strega, ora è una ricercatrice nel campo della robotica. C’è un filo rosso?
“Mi appassionava l’elemento trasformativo della stregoneria, la possibilità di far apparire qualcosa che non c’era per migliorare la realtà. Anche oggi, in fondo, creiamo cose nuove per potenziare le nostre possibilità quotidiane”.