Fra app e body sensors, il futuro della salute sembra essere sempre più connesso con l’idea di misura di sé. Ecco alcuni aspetti su cui vale la pena riflettere, fra grandi opportunità e grandi vulnerabilità.
App che misurano la pressione, altre che monitorano la tua dieta, altre ancora che calcolano il dosaggio di un farmaco in sala operatoria. Il futuro della medicina – concordano gli esperti – è anche mobile. M-health: la salute che passa attraverso il nostro smartphone. Sarebbero circa 100 mila oggi le app di salute che possiamo scaricare, molte gratuitamente, sul nostro smartphone o sul nostro tablet.
Perché è una rivoluzione
L’idea alla base di questa rivoluzione è la partecipazione delle persone ai temi che riguardano la propria salute. Si parla in questo senso di Empowerment del cittadino che ha la possibilità di monitorare autonomamente – ma senza sostituirsi al medico, si intende – alcuni dei propri parametri vitali.
Se ripensiamo agli ultimi 15 anni, noteremo che ciò che ci circonda è diventato anno dopo anno sempre più “vivo”, sempre più interattivo con noi. Fino a qualche anno fa non avremmo mai immaginato di avere sempre in tasca un sistema di messaggistica istantanea a un costo inferiore a un euro all’anno, né tantomeno di poter lavorare agevolmente con dei colleghi dall’una all’altra parte del mondo sullo stesso foglio excel condiviso, o di avere un robot in casa che ci accoglie non appena rientriamo dal lavoro. Per non parlare della possibilità di commentare in diretta un programma televisivo per esempio tramite twitter, interagendo con chi in quel momento è proprio lì in tv davanti a noi.
Anche la salute sta diventando sempre più partecipativa, in primis con il proliferare di siti web, forum e social network dedicati a questo tema. In questo vortice di cambiamenti, anche il concetto di app si sta evolvendo velocemente: la maggior parte delle app oggi sono body sensors, cioè sensori, strumenti che hanno l’obiettivo di entrare in risonanza con il nostro organismo, che ci toccano e ci misurano.
Una app è un dispositivo medico?
No, o meglio, solo una piccola parte lo è. È necessario essere consapevoli che la maggior parte delle app di salute sono software messi a punto da un singolo sviluppatore, o da un’azienda, piuttosto che da un ospedale, che però non hanno l’obbligo di sottoporre il proprio prodotto a test di efficacia o di ottenere per loro il marchio di dispositivi medici.
In altre parole, per chi lo desidera c’è la possibilità di far seguire alla propria app tutta la trafila per farla diventare un dispositivo medico vero e proprio – che in Europa per esempio deve ottenere anche il marchio CE – ma non vi è nessun obbligo. È sufficiente che il produttore dichiari che la app non è stata creata a scopo medico, ma solo – potremmo dire – ricreativo, e la può commercializzare come crede.
Un altro problema è che paese che vai, legge che trovi. Sebbene esistano delle linee guida per esempio americane ed europee, non vi sono in questo settore delle leggi che valgano per tutti i paesi, e se aggiungiamo che chiunque da tutto il mondo può sviluppare una app e commerciarla in un altro paese, è evidente che il panorama delle app di salute vive ancora uno stadio assai caotico al momento.
Anche se la tecnologia non è sinonimo di medicina, alcune belle eccezioni ci sono. È il caso per esempio di Lumosity, un app validata da numerosi studi di efficacia, pensata per aiutare le persone anziane affette da Alzheimer. Lumosity monitora l’andamento di alcune abilità correlate con la malattia, e permette di tenersi per quanto possibile in allenamento.
E la privacy?
Oggi viviamo nell’epoca dei cosiddetti Big Data. Ognuno di noi senza pensarci produce ogni anno un’enorme quantità di dati: quando usiamo i social network, un motore di ricerca, quando timbriamo al lavoro, quando saliamo in autobus, quando facciamo acquisti in rete, o quando paghiamo con la carta di credito in un negozio.
Oltre a questi, produciamo anche molti dati di salute, più di quanti immaginiamo. Ogni volta che ci rechiamo dal medico, che aggiorna la nostra cartella al computer, o se veniamo ricoverati all’ospedale.
Anche la m-health è una fonte immensamente profonda di dati, i nostri dati, che una app raccoglie continuamente, sia che si tratti di un body sensor, come un cerotto, un device sottocute, un tatuaggio. Sì, oggi esistono anche tatuaggi che in realtà sono sensori per rilevare un nostro parametro vitale (una storia l’avevamo raccontata qui). Il problema, il lato oscuro di questo dialogo con la rete, è che una app non è una scatola chiusa, non è un posto solitario. Una app è connessa, e archivia i dati che raccoglie in cartelle virtuali chiamate cloud, e non è così semplice risalire a chi ha accesso a quei dati. “Ma a chi vuoi che interessi sapere i valori della mia glicemia?” viene da chiedersi. Potenzialmente a molti. Oggi l’informazione è la via maestra per il potere.
Il problema è ancora una volta un problema geografico, che diventa un problema legale. Fisicamente, dove sono i miei dati? In un certo server, che il più delle volte non è situato nello stesso paese del produttore della app, che a sua volta spesso vive in un altro paese rispetto al distributore e magari rispetto all’utente finale che scarica la propria app.
“Think globally”, si dice di questi tempi.
Eppure, pensare globale in questo caso ha degli aspetti negativi. Immaginiamo, per esempio, che qualcuno voglia accedere ai nostri dati illegalmente: come si potrebbe procedere legalmente? Quale legge nazionale andrebbe seguita? E quali tutele avrebbe l’utente finale? Rispetto ad altre situazioni in cui si utilizzano sistemi cloud per lo stoccaggio dei dati e per renderli interoperabili, come possono essere gli ospedali per esempio, nel caso della m-health la situazione è estremamente più delicata.
Una app come servizio
Infine, c’è anche un altro modo di intendere questa rivoluzione, che esula dal concetto di misurare se stessi: pensare in termini di servizi. Molte app, pensate per esempio da ospedali o enti pubblici hanno creato delle app per favorire la fruizione dei servizi sanitari ai cittadini. In Umbria, per esempio, il Dipartimento di Economia dell’Università di Perugia e la Regione hanno sviluppato una app per fornire informazioni sanitarie ai migranti, che spesso hanno difficoltà a muoversi in un nuovo contesto sanitario che non hanno mai conosciuto prima, e che rappresentano una delle fasce più deboli della popolazione.