La fabbricazione dei microchip è diventata un tema sempre più sensibile a livello globale. La guerra in Ucraina e le turbolenze geopolitiche e commerciali globali accelerano i piani di autosufficienza cinesi
Oltre 90. Si tratta del numero di nuovi stabilimenti già entrati in funzione nella Repubblica Popolare Cinese, oppure che lo faranno nei prossimi mesi. Si sta parlando di impianti produttivi di uno dei settori più strategicamente rilevanti di questi anni Venti del terzo millennio: quello dei semiconduttori. Un settore sul quale stanno spendendo tutti tantissimo. Le parole chiave sono sempre le stesse: diversificazione e autosufficienza. Due parole chiave che vengono ripetute sempre più spesso nelle ultime settimane in seguito all’invasione russa e all’inizio della guerra in Ucraina. Tra le tante tendenze ad aver subito un’accelerazione a causa del conflitto si può annoverare infatti anche quella del rimescolamento della catena di approvvigionamento dei microchip. O quantomeno, della preparazione quasi frenetica di diversi paesi a ridurre la dipendenza dall’esterno.
Per capire perché questa accelerazione è ancora più marcata in Cina bisogna fare un passo indietro e dare qualche numero. Il settore dei semiconduttori è particolarmente diversificato e si struttura in diverse operazioni e step che vengono compiuti in diversi paesi. Ma la procedura forse più sensibile è quella della fabbricazione e assemblaggio, nella quale la leadership mondiale è saldamente in mano a Taiwan. E non di poco. Le aziende taiwanesi detengono oltre il 55% dello share globale del settore, con la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company che da sola supera il 50%. Circa due miliardi e mezzo di persone utilizzano ogni giorno prodotti contenenti semiconduttori prodotti da TSMC. I primi due competitor sono la sudcoreana Samsung Electronics con il 17,3% e l’altra taiwanese Umc con il 7,2%. Stati Uniti e Cina sono solo al quarto e quinto posto con Globalfoundries (6,1%) e Smic (5,3%). Nei giorni scorsi, TSMC ha peraltro annunciato di aver conseguito risultati trimestrali record, con un utile di 7 miliardi di dollari tra gennaio e marzo, in crescita del 45,1 per cento su base annua.
C’è però un problema. Taiwan ha una relazione quantomai complessa con la Repubblica Popolare Cinese, che la considera una “provincia ribelle” e parte del suo territorio. Taipei, che non ha nessuna intenzione di farsi unificare, ha stretto i rapporti con gli Stati Uniti che negli ultimi anni stanno cercando di tagliare il cordone tecnologico che la unisce all’altra sponda dello Stretto. Nell’estate del 2020 l‘amministrazione Trump non ha concesso la licenza di esportazione a TSMC verso Huawei, che contava oltre il 10% delle esportazioni del colosso taiwanese poi protagonista di accordi per l’apertura di impianti in Arizona, Giappone, India e Germania.
Perché la guerra in Ucraina accelera i piani cinesi sui semiconduttori
Quando tra 2020 e 2021 si è verificata una carenza di chip che ha portato a un rallentamento dell’approvvigionamento di semiconduttori, soprattutto in un settore come l’automotive che vive secondo il modello just in time, un po’ tutti si sono accorti del rischio di avere una dipendenza eccessiva dall’Asia, e in particolare da Taiwan, per l’approvvigionamento di semiconduttori. Preoccupazioni amplificate per Pechino, visto il tentativo alimentato da Joe Biden di escluderla dalle supply chains democratiche proprio nel settore tech. La guerra in Ucraina sta dando velocità a questo tentativo, che a sua volta porta Pechino a pigiare sull’acceleratore di un progetto che in realtà è stato avviato in tempi non sospetti.
Già il programma Made in China 2025 prevedeva il rafforzamento delle capacità tecnologiche di Pechino, portandola verso l’autosufficienza. Obiettivo: rafforzamento della produzione di alta qualità interna e impermeabilità dalle turbolenze commerciali e geopolitiche esterne di un mondo rivelatosi vulnerabile e incerto dopo la crisi finanziaria del 2008 e la guerra commerciale lanciata dalla Casa Bianca nei confronti di Pechino.
Nel suo piano quinquennale 2021-2025, la Cina ha stanziato 1,4 trilioni sulle industrie strategiche, compresa quella dei semiconduttori. Sul suo territorio ha oltre 90 nuovi stabilimenti pianificati o già entrati in funzione. Il timore degli operatori è che in dieci anni, grazie alle sovvenzioni del governo, le aziende cinesi possano scombussolare il mercato mondiale producendo sotto costo e sconvolgendo la domanda. Il governo ha infatti dato luce verde a un’ampia serie di sussidi governativi, sgravi fiscali e altre politiche preferenziali per il settore che sta vivendo un vero e proprio boom di investimenti.
Le importazioni cinesi di semiconduttori si sono ridotte del 9,6 per cento in volume nel primo trimestre del 2022 rispetto allo stesso periodo del 2021. Un dato in clamorosa controtendenza con quello registrato 365 giorni fa, che vedeva un forte aumento del 33,6 per cento. La Cina è tradizionalmente il più grande importatore al mondo di chip stranieri, che vengono utilizzati per la produzione di veicoli elettrici, smartphone e altra elettronica di consumo. Nel 2021 la Cina è rimasta il più grande mercato mondiale di attrezzature per la produzione di semiconduttori, con vendite in aumento del 58 per cento a 29,6 miliardi di dollari.
Ma ora il governo cinese punta sulla produzione autoctona. Nel 2021 le aziende locali hanno prodotto 359,4 miliardi di circuiti integrati, in aumento del 33,3 per cento su base annua, raddoppiando il tasso di crescita registrato nel 2020. Il principale attore locale del comparto, SMIC, prevede di spendere circa 5 miliardi di dollari quest’anno per l’espansione della propria capacità produttiva e in ricerca e sviluppo, in aumento rispetto ai 4,5 miliardi di dollari dell’anno scorso.
Decine di compagnie della Repubblica Popolare stanno operando o hanno già operato fusioni e acquisizioni nei settori dei semiconduttori tra seconda parte del 2021 e inizio del 2022. La Shenzhen Hongfuhan Technology Co, quotata al Nasdaq ChiNext, ha acquisito una quota del 37 per cento del valore di 10,6 milioni di yuan in un fondo di nuova costituzione per l’industria dei semiconduttori. La Jiangsu Dagang Co., quotata a Shenzhen, ha investito 45 milioni di yuan in un altro fondo industriale operante nel settore dei semiconduttori a Zhenjiang.
Non è tutto così semplice, come spesso accade in Cina il via libera del governo su un determinato settore coincide con il pensiero che diventi improvvisamente facile generare business in un campo nel quale gli attori cinesi devono ancora scontare un ritardo sotto il profilo delle expertise. E se lo svantaggio quantitativo potrebbe essere rapidamente assorbito, quello qualitativo richiederà un po’ di tempo in più. Ma dopo pandemia e guerra in Ucraina si può dire con certezza che Pechino non vuole solo cancellare questo ritardo ma anche diventare capofila di un settore che sta diventando sempre più strategico.