Countdown SIOS23. Il filosofo digitale, ricercatore affiliato al MIT e speaker al SIOS23 di Roma svela il futuro della transizione tecnologica tra rischi e opportunità. «Serve un pensiero critico. Siamo impegnati a sviluppare soluzioni, ma serve consapevolezza»
La transizione tecnologica e ingegneristica verso una società data-driven deve passare dalla terra di mezzo della cautela e del coraggio. Dovremo produrre nuovi sensi e significati perché la cultura data-driven è una novità per la nostra civiltà. Anche la privacy assumerà significati nuovi. Ne abbiamo parlato con Cosimo Accoto, filosofo digitale e ricercatore affiliato al MIT di Boston, cresciuto nell’industria dei dati/software e autore della trilogia tecno-filosofica (Il mondo in sintesi, Il mondo ex machina, Il mondo dato). Accoto in passato ha parlato con StartupItalia di simulazione computazionale e tra soli tre giorni, ovvero il 27 giugno, parteciperà al nostro SIOS23 Summer a Roma in qualità di speaker (qui per registrarsi e partecipare all’evento). Parlerà di intelligenza artificiale e delle complesse prospettive che si stanno dispiegando. Gli abbiamo fatto alcune domande sulla portata del cambiamento in atto che sta coinvolgendo le nostre società, a tutti i livelli, consapevoli che l’AI è una provocazione planetaria da affrontare politicamente e culturalmente.
“AI, tutta la verità” è il titolo del suo panel al SIOS23 Summer di StartupItalia. Bisogna essere sospettosi verso la verità e le conseguenze prospettate dall’AI?
Dalle pratiche di sospensione del giudizio nell’antica Grecia alle scuole moderne e contemporanee del sospetto, la filosofia è storicamente disciplina maestra nell’insegnarci a dubitare e ad applicare il pensiero critico alle civiltà e alle tecnologie (che peraltro è una delle skill vincenti del XXI secolo). E questo vale anche per l’intelligenza artificiale, ultima arrivata a scardinare i vecchi regimi di verità (insieme a blockchain decentralizzata, computazione quantistica, biologia sintetica). A fronte di queste innovazioni, bisogna avere un atteggiamento cauto, ma anche aperto e coraggioso. Soprattutto in questa fase di passaggio tecnologico (e ingegneristico) verso una società e un’economia AI-driven, dicono gli economisti. Cautela e coraggio insieme nel vivere il presente e orientare il futuro.
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Siamo attrezzati per gestire questa transizione?
Se intende dire, essere pronti culturalmente direi di no. Ma è una condizione comune in tutti i momenti di trasformazione tecnologica profonda. Siamo impegnati fortemente nello sviluppare e implementare soluzioni, ma senza la consapevolezza e maturazione intellettuale e sociale che sarebbero opportune. Di fatto, la nuova educazione e conoscenza si costruirà nel tempo, avremo bisogno di fare innovazione culturale. Quando è arrivata la parola scritta e stampata abbiamo dovuto inventare un sapere nuovo, la filologia, per distinguere un documento vero da uno falso. Lo stesso compito spetta a noi che dovremo affrontare ora deep fake video, immagini sintetiche, scritture automatizzate. Non ci basteranno regole e regolamenti, dovremo impegnarci a produrre nuovi sensi e significati.
C’è il rischio che qualcosa di rischioso ci sfugga di mano?
Dobbiamo fare i conti con numerosi rischi e vulnerabilità. Non solo ipotetici, ma testimoniati in questi mesi passati. Manipolazioni, violazioni, prevaricazioni, alienazioni, discriminazioni sono state documentate e si stanno cercando i quadri normativi e regolatori che ci consentano di gestire il rischio. Usa, Europa e Cina, ciascuna a suo modo, sono impegnate in un difficile compito proprio in queste settimane. Un quadro che si complica con la competizione globale e con le diverse geostrategie e geopolitiche. Come ho scritto, l’AI è una provocazione planetaria da affrontare politicamente e culturalmente. Di certo, gli allarmismi inutili così come gli entusiasmi ingenui o interessati vanno entrambi calibrati. Serve promuovere un approccio maturo che estragga il valore potenziale dell’AI per il nostro pianeta.
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Pensando all’AI generativa, come si immagina lo scenario tra un anno?
Da “discriminativa”, l’AI è divenuta nel giro di pochi anni “generativa”. Non solo riconosce i volti, ma li ricrea sinteticamente. Questa capacità nuova sta generando un fortissimo hype e una circolazione di grandi flussi di investimenti da parte di imprese, capitali di ventura, startup. A San Francisco, ad esempio, è un fiorire di eventi e meeting a tema con tassi di incontri in crescita mese su mese rilevantissimi. Quindi posso immaginare che questa spinta durerà ancora per qualche tempo. In più, noto ora uno slittamento dell’interesse dalla produzione sintetica di contenuti, alla pianificazione automatizzata di compiti complessi. Insieme ai modelli linguistici e a quelli visuali, l’arrivo di agenti artificiali autonomi sposta il focus dalla creatività (media) alla produttività (task e microtask diversi).
Si dice che il potere oggi risieda nelle stanze di chi detieni i dati, ma la politica sembra un passo indietro. È così?
Se guardiamo ai campi di dominio del dato direi che sì, la quantificazione del mondo (dati e metadati) è l’elemento chiave. La mia trilogia filosofica si apre con “Il mondo dato” non a caso (gli altri due saggi sono “Il mondo ex machina” e “Il mondo in sintesi”). Senza dati non c’è intelligenza artificiale, di dati si nutre l’automazione e la robotica, dati sintetici producono la simulazione computazionale che andranno a superare quelli reali. E ancora, i metadati sono al centro delle tecnologie di tokenizzazione dei criptosistemi, mentre in cybersicurezza si parla sempre più di militarizzazione del dato a proposito di attacchi criminali e di cyberguerra. Infine, la misurazione è l’operazione chiave della computazione quantistica che ci porterà dai bit ai qubit. Politica, diritto e cultura arrancano e tardano a evolvere.
Per costruire una società democratica data-driven servono nuove regole giuridiche. A che punto siamo?
Una cultura data-driven è una novità per la civiltà e la specie umana. Noi non siamo abituati a queste logiche. Finora ce la siamo cavata con pochi dati, qualche modello e un po’ d’esperienza per decidere nella società, nell’economia e nella politica. Non sarà più così. Ci trasformeremo. Non accadrà in una notte, ma la direzione è segnata. Non ci pensiamo quasi mai, ma la politica è tecnologia (della comunicazione, dell’informazione, del coordinamento, della decisione). Se la tecnologia cambia (dati, algoritmi, protocolli) qualche cambiamento nella politica ci sarà. Certo le democrazie possono fallire in tanti modi nuovi. E quando dico fallimento intendo che la democrazia non sia in grado di mantenere le promesse del suo agire politico. Per questo non basterà digitalizzare la politica attuale.
Ha ancora senso parlare di privacy così come l’abbiamo sempre intesa fino ad oggi?
La privacy non è un concetto astratto, ma sempre una pratica calata e collocata storicamente. Legata e intrecciata all’evoluzione delle diverse culture, geografie, tecnologie, sensibilità. Comportamenti, usi e contesti che un tempo non erano privati lo sono diventati (e viceversa) e possiamo immaginare che sarà così anche in futuro. Quindi la domanda non è se ha ancora senso, ma quale sarà il nuovo senso che avrà. Lo stiamo già plasmando nei nostri comportamenti sulle reti sociali, durante i dialoghi con l’AI, con le immagini filtrate, insieme agli assistenti virtuali e agli oggetti smart che abitano le nostre case e vite. Per qualcuno siamo già nella società della sorveglianza. È un paradigma conosciuto e comodo, ma credo anche sempre più insufficiente per interpretare un mondo che cambia nelle sue fondamenta.
Al SIOS23 Summer a Roma parlerà a imprenditori e startupper, i protagonisti dei mercati dell’innovazione. Che suggerimenti vuole dare?
Pensare strategicamente e sperimentare concretamente. Prendersi il tempo di leggere culturalmente in profondità le rivoluzioni tecnologiche in divenire. Almeno quattro, quelle che da scienza stanno diventando ingegneria. Dai laboratori ai mercati: intelligenza artificiale, blockchain decentralizzata, computazione quantistica e biologia sintetica. Studiare tecnicamente, culturalmente e strategicamente: AI come passaggio dall’archivio all’oracolo, la blockchain come innovazione istituzionale (non tecnica), il paradigma dell’informatica quantistica verso macchine e quantum internet, la biologia sintetica che non osserva o sperimenta, ma ricrea la vita biofabbricandola. Sono cambi di paradigma con cui fare business experimentation e learning continuo. Non ci sono scorciatoie, manuali o guide.
Le Università italiane e Master post Laurea offrono piani formativi adeguati alla complessità che comporta la rivoluzione tecnologica?
Si stanno attrezzando con qualche ritardo e resistenza. Certamente abbiamo delle punte di eccellenza, ma lo sforzo e il salto lo deve fare il Paese e l’intero sistema educativo e formativo. Se questa è l’era dell’ingegneria (bio-, nano-, neuro-, geo-ingegneria), ben vengano le discipline stem e affini. Ma anche saperi e domini ridisegnati dalle tecnologie: computational law, digital humanities, synthetic biology, quantum cryptography, algorithmic art, digital health per dire i primi che mi vengono alla mente. Aggiungerei filosofia e informatica ovunque possibile, così come l’insegnamento di storiografia per le diverse discipline. Perché se queste cambieranno, è necessario tenere traccia e memoria di come si sono evolute metodologicamente educandoci alla complessità e alla diversità. La scuola sta ricevendo finanziamenti come mai si erano visti. Non perdiamo questa occasione unica per portare tutti e tutte nel XXI secolo.