Il professore del Politecnico di Milano ed esperto di sicurezza informatica parla delle difficoltà di chi fa innovazione in Italia: “i venture capital ancora non sono abbastanza e le startup soffrono mancanza di capitale ed eccessiva burocrazia. I casi di successo nella cybersecurity riguardano quasi sempre aziende basate all’estero”
A guardare i dati economici sugli investimenti in startup italiane, si nota una crescita di oltre il 68% rispetto allo scorso anno, a sua volta in aumento sul 2020. In particolare, come ha analizzato il report di StartupItalia, nel 2022 circa 2,39 miliardi di euro sono stati destinati alle realtà innovative del nostro Paese. Eppure, sottolinea Stefano Zanero, professore del Politecnico di Milano, esperto di sicurezza informatica e imprenditore, non ci si può dire soddisfatti.
“Programmi di accelerazione, bandi e competizioni hanno migliorato le condizioni dei giovani imprenditori italiani, permettendo loro di avviare l’attività senza ricorrere a significative quantità di risorse”, sostiene Zanero. “Ma poi, per fare le scaleup all’americana serve capitale, che invece scarseggia“. Uno dei problemi, secondo il docente, sta nel numero, ancora esiguo, di venture capital strutturati presenti in Italia. “Quelli che ci sono”, prosegue, “sono seri e lavorano bene, ma non ce ne sono abbastanza”.
Le difficoltà delle startup di cybersecurity, i limiti di blockchain
Anche restringendo il campo al settore della sicurezza informatica, a prima vista le cose sembrerebbero non andare così male. Secondo l’ultima ricerca dell’Osservatorio cybersecurity e data protection del Politecnico di Milano, nel 2021 si è registrato un incremento del mercato italiano della cybersecurity, che ha raggiunto un valore di 1,55 miliardi di euro, +13% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, la stessa ricerca evidenzia come, nel nostro Paese, la spesa in sicurezza informatica rappresenti lo 0,08% del Pil, all’ultimo posto tra gli Stati del G7.
Una spinta allo sviluppo di iniziative di cybersecurity proviene dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Nella missione uno, sono infatti previsti 623 milioni di euro di investimenti in presidi e competenze di sicurezza informatica per la pubblica amministrazione. Ulteriori risorse sono stabilite nell’ambito della missione quattro, che prevede fondi per la ricerca e la creazione di collaborazioni nel campo dell’innovazione, inclusa la cybersecurity.
In particolare, ricorda Il Sole 24 Ore, stando al programma del Pnrr, nel 2021 e nel 2022 si sarebbero dovuti spendere rispettivamente 170 e 190,4 milioni di euro dei 623 milioni complessivi. Nonostante questi elementi di spinta, il contesto nel Belpaese per le startup attive nel campo della cybersecurity presenta ancora numerose difficoltà.
Professore, qual è la situazione delle aziende innovative che si occupano di sicurezza informatica in Italia?
A essere sinceri, non sono numerose le realtà italiane ad aver fatto qualcosa di rilevante nell’ambito della cybersecurity, soprattutto a causa delle più generali difficoltà che incontrano le startup del nostro Paese a lanciarsi sul mercato nazionale.
“Nella cybersecurity, molte aziende importanti sono di imprenditori italiani basati all’estero”
Ci saranno delle eccezioni.
Naturalmente. I casi di successo, seppure pochi, ci sono e, proprio per i problemi che devono affrontare le startup che operano in Italia, meritano a maggior ragione i complimenti. Nell’ambito della cybersecurity, comunque, a esclusione di alcuni casi come Cleafy, azienda con sede a Milano, le storie più importanti sono quasi sempre legate a imprenditori italiani che decidono di basarsi all’estero.
Quali nomi le vengono in mente?
Penso, ad esempio, ai casi di Keyless (startup fondata a Londra da quattro imprenditori italiani, che nel 2021 ha effettuato l’exit, acquisita dalla statunitense Sift, ndr) e Iperlane, fondata da Vincenzo Iozzo e comprata da CrowdStrike. Oggi, Iozzo ha lanciato SlashId, una nuova startup con sede negli Stati Uniti. Altre società nel campo della cybersecurity con cuore italiano sono Sysdig, ideata da Loris DeGioanni e con quartier generale a San Francisco, e Lastline, cofondata da Giovanni Vigna e acquisita da Vmware.
“In Italia c’è difficoltà ad accedere al capitale. E per fare le scaleup all’americana, serve capitale”
Tornando in Italia, accennava alle problematiche con cui le startup, non solo quelle in ambito cybersecurity, devono fare i conti.
Innanzitutto, la difficoltà ad accedere al capitale. Certo, programmi di accelerazione, bandi, competizioni e altre iniziative hanno migliorato le condizioni dei giovani imprenditori italiani, permettendo loro di iniziare l’attività senza dover ricorrere a significative quantità di risorse. Ma poi, per fare le scaleup all’americana serve capitale, che invece scarseggia. Il motivo è la mancanza di un numero significativo di grandi venture capital. Quelli presenti sono molto seri e lavorano bene, ma ancora non ce ne sono abbastanza.
Nell’attesa che il contesto migliori, quali sono le altre questioni da affrontare?
Confrontando il nostro ecosistema startup con quello di Paesi più avanti rispetto all’Italia, è evidente la carenza dei legami che le imprese devono tessere con i loro futuri clienti. Ecco che, quindi, dobbiamo trovare un’alternativa adatta al nostro contesto.
Quale?
Le società neonate devono inserirsi in altri tipi di network aziendali, per fortuna presenti in Italia. L’esempio più rilevante è la rete creata da Confindustria, che promuove una serie di iniziative tramite le quali aziende strutturate e di lunga data in un certo senso incubano una startup, per introdurla al mercato e supportarla in tutti gli aspetti che il fare impresa comporta. Aspetti spesso lontani dallo startupper tecnologo. Sono logiche diverse da quelle di altri Paesi, con cui bisogna fare i conti.
“La burocrazia è diventata uno slogan politico, ma è un problema che può stroncare sul nascere un’azienda”
Provo ad anticipare il terzo problema: la burocrazia.
Ormai, purtroppo, il tema della burocrazia è diventato uno slogan politico, che viene ripetuto a pappagallo. Questo contribuisce a far passare il messaggio che si tratti di un falso problema, quando in realtà la pesantezza burocratica è davvero una di quelle cose che può stroncare sul nascere un’azienda. Chi ha aperto un’impresa sa bene quanto tempo ha perso per le complessità inerenti alle parti fiscale, tributaria e legale. Nel Regno Unito, l’incorporazione di una società avviene via mail nel giro di una mattinata. Non si può dire lo stesso dell’Italia.
Oltre al Regno Unito, si cita spesso la distanza tra il peso economico degli ecosistemi startup dei maggiori Paesi europei e quello italiano, nonostante i progressi recenti. Da cosa deriva questa differenza?
In Germania e in Francia c’è un diffuso apprezzamento del made in Francia e del made in Germania, che non sempre si riscontra in Italia. Sono sistemi Paese aperti e globalizzati, ma comunque sensibili agli acquisti di prodotti francesi o tedeschi. Può sembrare un aspetto marginale, ma per chi fa impresa, anche startup, non lo è.
“Nella gran parte dei casi in cui viene proposta da startup, aziende e istituzioni, la blockchain non serve a niente”
Prima di concludere, un veloce salto su un argomento che, tra alti e molti bassi, si è ritagliato un ruolo importante nel mondo della tecnologia e sul quale ha espresso più di una perplessità: blockchain.
La blockchain e, più in generale, la distributed ledger risolvono molto bene un problema molto specifico: fare dei registri puramente digitali e in modo distribuito laddove manca un’autorità, ad esempio nel caso di transazioni. Nei campi in cui è stata utilizzata per la prima volta, ossia digital cash e asset digitali di diversi tipi, la blockchain funziona benissimo.
Ma?
Ma di questi problemi, che la blockchain è tanto adatta a risolvere, ce ne sono pochi e appannaggio di alcuni settori. Occupandosi di questioni molto specifiche, è quindi lecito chiedersi se sia davvero una tecnologia pervasiva e in grado di risolvere così tante problematiche, come viene propugnata.
E che risposta si è dato?
Che nella gran parte dei casi per la quale viene proposta da startup, aziende, organizzazioni e anche dalle istituzioni, in realtà non serve a niente. Faccio solo un esempio. Ho sentito parlare di blockchain legata alla tracciabilità di filiera di un certo alimento, quando l’informazione che si trova sulla blockchain stessa è stata inserita da qualcuno e perciò è impossibile controllare il dato all’origine. Ecco, in casi come questo è inutile.
In quali ambiti, allora, blockchain può dare un apporto davvero utile all’innovazione?
C’è da dire che, in Italia e in particolare a Milano, questo ambito, inerente a blockchain e distributed ledger, e, in senso più ampio, il mondo fintech, stanno avendo una certa presa e un peso rilevante. Proprio il fintech, forse, costituisce, per il panorama dell’innovazione italiano, una delle presenze più interessanti a livello nazionale tra le startup Ict.