È un po’ come un ritorno alle origini, quando il Macintosh montava i processori 68k e poi i PowerPC. L’obiettivo è unificare la piattaforma mobile-desktop, per aumentare il peso specifico della Mela
Chi ha qualche anno di esperienza coi computer Apple ricorda senz’altro l’altra grande transizione: l’era dei processori PowerPC era alla fine, i vari G3, G4 e G5 non offrivano più un vantaggio competitivo significativo rispetto alla piattaforma x86, e Steve Jobs sul palco annunciò quello che in molti si attendevano. Con la presentazione di OSX Tiger (10.4), avvenuta nel 2005 durante la WWDC, iniziò un percorso che ci ha portato fin qui: al giorno in cui Tim Cook ha annunciato, di nuovo sul palco della conferenza per sviluppatori Apple, che la prossima versione di MacOS supporterà nuovi processori sviluppati dalla stessa Apple basati su tecnologia ARM. Una decisione dettata dall’esigenza di cambiare il proprio posizionamento sul mercato: controllare la combinazione tra hardware e software, da sempre, è la chiave per l’azienda di Cupertino per fare la differenza. Ma, soprattutto, i numeri del mobile di Cupertino son decisamente superiori a quelli dei PC: e con questo bisogna fare i conti.
Come cambia MacOS Big Sur
A rimarcare le novità della nuova versione di MacOS, in uscita in autunno, Apple ha deciso di fare un altro grande cambiamento rispetto alle versioni attuali: il prossimo MacOS sarà contrassegnato dal numero di release 11.0, per la prima volta si abbandona il numero 10 (X) che ha contrassegnato questo sistema operativo sin dal 2001 con l’uscita della 10.0 (Cheetah). MacOS insomma punta a tagliare definitivamente i ponti col passato, o almeno con alcuni aspetti del suo passato, e da questo punto di vista Apple è sempre stata molto pragmatica: ogni volta che è stato necessario non si è fatta scrupolo nel cambiare direzione, tecnologia, approccio per garantire un’esperienza d’uso di un certo tipo alla sua clientela.
Sul piano estetico, il grosso di quanto si è visto ieri durante la presentazione, ci sono alcuni cambiamenti significativi nell’interfaccia che la fanno assomigliare sempre di più a quella di iPadOS: effetti traslucidi, palette di colori omogenee, un sistema unificato tra notifiche e controlli di sistema (volume, luminosità ecc) in un Centro di Controllo che ricorda vagamente quanto mostrato sullo stesso palco parlando di iOS14. Ci sono novità anche nelle icone presenti sulla barra strumenti delle app, ora la grafica è stata semplificata e resa più stilizzata: un’esigenza questa dettata anche dal voler unificare l’approccio con la grafica e l’estetica dei tablet di famiglia, visto che Apple continua a puntare sull’opportunità (tramite Catalyst) offerta agli sviluppatori di portare le app di iPadOS su MacOS.
È sotto il cofano ovviamente che ci sono i cambiamenti maggiori: secondo Apple sarà piuttosto semplice produrre nuove versioni delle applicazioni presenti sui Mac x86 compatibili con la nuova piattaforma, che nelle intenzioni di Cupertino offrirà soprattutto vantaggi significativi per quanto attiene le performance grafiche. Craig Federighi, l’uomo incaricato di presentare MacOS Big Sur 11.0 al pubblico, ha rivelato che Apple è da tempo al lavoro con partner del calibro di Microsoft e Adobe per garantire che al lancio ci siano già titoli di cartello pronti per il nuovo sistema: durante la demo sono state mostrate app come Lightroom o Word, già perfettamente funzionanti, segno che l’offerta di base dovrebbe essere completa già dall’autunno (e poi ovviamente Apple ha già provveduto a convertire tutte le sue App: Final Cut e Logic Pro compresi).
Infine c’è il pezzo che manca al puzzle, e che riprende in tutto e per tutto quanto era accaduto nel 2005 (esattamente 15 anni fa): con Rosetta 2 sarà possibile utilizzare in modalità quasi-nativa le app non ancora aggiornate (o che non lo saranno) con una tecnologia che, pur con qualche limite, ben si era comportata all’epoca di Tiger. Una sorta di interprete e traduttore tra vecchio e nuovo, proprio come il nome Rosetta lascia intendere, che rispetto al passato dovrebbe funzionare preventivamente ottimizzando l’utilizzo delle app già al momento dell’installazione.
Cosa cambia per i Mac
Esattamente come avvenuto nel biennio tra il 2005 e il 2007, Apple punta a completare la transizione verso la nuova architettura entro il 2022: un ciclo di due anni che consentirà agli sviluppatori di adeguarsi ai nuovi strumenti, e che vedrà comunque il debutto nei prossimi mesi di computer basati ancora su processori Intel affiancati a vere novità con a bordo un chip ARM disegnato dalla stessa Apple per adattarsi al meglio alle proprie esigenze. Due anni di tempo durante i quali i consumatori dovranno valutare attentamente i propri investimenti in hardware: acquistare un Mac-ARM a scatola chiusa, senza conoscere pregi e difetti della nuova piattaforma, sarà un rischio – ma d’altra parte investire oggi in un Mac-x86 potrebbe rivelarsi una scelta poco lungimirante già a breve termine.
Ciò che conta davvero è comprendere come Apple intenda la propria piattaforma: già quella x86 non era identica dal punto di vista hardware a un laptop o un PC con a bordo Windows, non a caso per tutti questi anni a Cupertino hanno deciso di continuare a usare la definizione “logic board” per la motherboard di fissi e portatili così da rimarcare ulteriormente questa differenza. Il passaggio a processori disegnati in casa, e basati su una tecnologia analoga ai chip che già da anni equipaggiano iPhone e iPad, consentirà di puntare su specifiche capacità dell’hardware in grado di supportare al meglio il software: la grafica soprattutto, ma pure elementi dedicati al machine learning e alla sicurezza che costituiscono il cuore delle performance che Apple punta a offrire ai propri clienti.
Gestire hardware e software in simbiosi consente di spremere al massimo ogni megahertz dal silicio: ovviamente dietro le quinte per i tecnici di Apple c’è stato e ci sarà ancora da portare a termine un lavoro enorme, così da assicurare che la transizione per gli sviluppatori sia la più semplice possibile (dentro Xcode 12 dovranno trovarci le stesse funzioni e classi a cui sono abituati, con solo qualche novità per adattarsi alla nuova architettura), ma pure per garantire che le performance dei nuovi processori siano realmente all’altezza delle aspettative. Le dichiarazioni fatte in conferenza, tanta potenza e pochi consumi, sono marketing: sicuramente si può fare le cose diversamente sul piano tecnico (sfruttare le peculiarità dei design ARM rispetto alla architettura x86), ma per offrire lo stesso tipo di performance si deve comunque affrontare un processo di affinamento che – per quanto Apple abbia fatto esperienza su tablet e smartphone – non è scontato.
Da parte sua Apple dimostra ancora una volta di aver voglia di scommettere sul proprio futuro, ma è una scommessa che non poteva evitare: le percentuali di mercato che si è accaparrata su mobile (smartphone, tablet, wearable) sono molte diverse da quelle che mantiene nel mondo PC, e il peso specifico necessario per convincere sviluppatori (e di conseguenza clienti) a continuare a puntare sui Mac può essere mantenuto soltanto se si semplifica il passaggio delle app da iPhone e iPad ai PC. In altre parole: non è tanto voler traslare l’esperienza di iOS su MacOS, quanto la necessità di garantire la sopravvivenza dei Mac con una “donazione di sangue” da iPad. La frase finale di Tim Cook, che suona tipo “come vedete continuiamo a innovare”, racconta solo metà della storia: per guardare avanti Apple si guarda indietro, e spera che la rivoluzione iPhone le offra una speranza di continuare a far sopravvivere anche il Macintosh.