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“Ma proprio qui dovevano farlo?” pensa lo sprovveduto che si aggira tra i viali di uno dei distretti più belli di Milano. Non è il solo. Più di qualche residente, forse quasi tutti, si sarà domandato con che ironia gli urbanisti abbiano deciso, con tanto spazio a disposizione, di scegliere quest’area. Le mura del carcere di San Vittore spezzano con l’imponenza che si confà alle galere l’atmosfera rarefatta di una delle zone più chic del capoluogo lombardo: diecimila euro al metro quadro, box e cantina a parte, naturalmente.

 

Le spesse pareti attutiscono il cigolare dei catenacci. Da fuori, regna un silenzio da abbazia cistercense. Dentro è diverso. Un inferno di persone, problemi, puzza di chiuso e storie disperate. Storie tornate di attualità nei primi giorni della pandemia dovuta al coronavirus, quando in tutto il Paese sono scoppiate drammatiche rivolte.

 

Il carcere non è un luogo di piacere, direbbe qualcuno, e buonanotte a Beccaria. Ma il biglietto di chi esce, in molti casi, include il ritorno. Spesso nel giro di pochi mesi.

 

Basta poco. Dalla galera si viene fuori senza soldi, con famiglie disastrate, conti da pagare, e una vita da inventare. Scuole poche. Se avevi studiato mica stavi qua. Lavoro niente. Basta un caffè al bar nel vecchio quartiere, e il gioco ricomincia. Daccapo. Finché ti beccano, e torni dentro.

 

Gli istituti di pena, come pudicamente vengono chiamati, ci costringono a confrontarci con la casualità senza meriti che ha visto alcuni nascere in centro e altri, semplicemente, nel quartiere sbagliato, nella famiglia sbagliata, con i vicini di casa sbagliati. Poi c’è il libero arbitrio, certo, ci sono le scelte individuali, e sono quelle a fare la differenza. Ma il punto di partenza conta.

 

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Detenuti al lavoro (foto: cooperativa Universo)

Una vita per formare i detenuti

Lorenzo Lento ha cominciato a insegnare in carcere da volontario nel 2002. Esperto di sicurezza informatica e Ict manager, nel 2012 ha dato vita alla cooperativa Universo con due soci. Negli anni, hanno lavorato alla manutenzione di rete per importanti clienti milanesi.

 

Tra i risultati ottenuti, vanta un protocollo d’intesa siglato nel 2016 con il Ministero della Giustizia con Cisco Italia, Fondazione Vodafone Italia, Confprofessioni per formare oltre duecento detenuti in 6 carceri italiane. Punto di partenza Bollate, penitenziario modello, cui hanno fatto seguito – in fasi diverse – Opera, Secondigliano, La Spezia, Rebibbia, Monza e gli istituti per minorenni di Nisida (Napoli) e Firenze.

 

I numeri del recupero

Si calcola che siano grossomodo duemila (su una popolazione carceraria di circa 66mila persone) i detenuti impiegati in attività lavorative, dai call center al giardinaggio. Secondo le ricerche, spiega Universo, il recupero anche solo di 700 “virtuosi” consentirebbe allo Stato un risparmio di circa 35 milioni di euro l’anno: senza contare la nuova ricchezza che si verrebbe a creare, una volta reinseriti nella società in modo produttivo.

 

Trovare lavoro è difficile anche per chi in carcere non ci ha mai messo piede. Figuriamoci per chi si porta dietro un passato burrascoso. Ma i corsi di Lento sono professionalizzanti (46 esami e due anni di lezioni per ottenere la certificazione completa) ed estremamente tecnici. E, soprattutto, consentono di procurarsi rapidamente un impiego a pena espiata. Che è il modo migliore per dire addio, una volta per tutte, ai secondini.

 

“Non è un percorso facile – racconta il docente a StartupItalia – Partono in centinaia, e alla fine arrivano solo in dieci, quindici. Ma la cosa interessante – sottolinea – è che a Bollate il tasso di recidiva di chi ha completato gli studi rasenta lo zero”. Non è difficile da credere.  La cybersecurity è richiestissima sul mercato, e le aziende fanno a gara ad accaparrarsi gli esperti, in Italia e all’estero.

 

“L’esperienza di tanti anni mi ha insegnato che, se non hai lavoro, ci vuole poco a perdere la strada e ricominciare come prima. Ma anche il percorso per cambiare vita è lungo, pieno di ostacoli, dubbi, ripensamenti”.

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Detenuti al lavoro (foto: cooperativa Universo)

 

Una sede in periferia

Conta persino la geografia. “Che senso ha, chiedo al Comune, offrirci una sede in periferia? Alcuni detenuti hanno ottenuto l’autorizzazione a uscire dal penitenziario per seguire le lezioni, perché è difficile spiegare le reti senza mostrare praticamente i componenti. Lei ha presente cosa significa fare entrare un router di cinque o dieci chili di peso in carcere?”. No. “Significa rischiare di non entrare pr motivi di sicurezza e tornarsene a casa, ogni volta, caricandolo di nuovo in macchina. Ma il problema non si risolve facendo tornare i giovani nei quartieri a rischio dove sono nati e cresciuti. Così, li si espone a un travaglio interiore che non sono in grado di affrontare”. Per non parlare di quando ci si mette la jella. “Un ragazzo ha incontrato un conoscente. Si sono salutati, gli ha stretto la mano mentre aspettava il pullman per tornare in carcere: per questo gesto si è fatto un anno in più”.

 

A volte, però, gli astri si allineano, anche il karma fa il suo dovere, e la vita riprende a scorrere. Ci sono storie che parevano segnate, e, invece, hanno svoltato. Sceneggiatori pigri hanno dovuto scrivere un finale alternativo.

 

Come quella di Luigi Celeste, una condanna per omicidio e molta voglia di lasciarsela alle spalle. Durante la detenzione, intraprese la formazione con Lento, diventando uno dei primi dipendenti della cooperativa. Oggi è un libero professionista che lavora in giro per il mondo. “E non è l’unico. Tanti li sento ancora, e mi raccontano che per loro la richiesta è altissima. Il limite maggiore che  queste persone incontrano per l’assunzione è proprio la fedina penale sporca”.

 

Osserviamo che la sicurezza informatica non è ambito di poco conto per un’azienda. “È vero – replica Lento – Ma il discorso, in realtà, vale anche per chi cerca un posto di addetto alle pulizie: se hai commesso reati non ti prendono, nonostante il debito con la giustizia sia estinto. Parliamoci chiaro: si tratta di soggetti che raramente hanno proseguito oltre la terza media, e a un certo punto dell’esistenza si mettono a studiare materie complesse, dense di numeri e con manualistica in inglese. Una fatica titanica: e infatti molti abbandonano. Ma le assicuro che chi ce la fa non vuole tornarci, alla vita di prima”.

 

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Videoconferenze per fermare le rivolte

Le carceri, si sa, sono una pentola a pressione. E quando, a marzo, le amministrazioni hanno vietato i colloqui con i parenti come misura in extremis per evitare il contagio, il sistema si è surriscaldato fino a esplodere. Le immagini di cosa possa produrre la rabbia dei reclusi hanno fatto il giro di web e televisioni: sanitari divelti, infermerie messe a soqquadro. Una reazione a catena che ha sconvolto la penisola, con devastazioni i cui costi graveranno a lungo sul sistema, e persino una fuga, come avvenuto a Foggia.

 

“Era chiaro. Quando le mogli di alcuni dei nostri corsisti hanno cominciato a chiamarci allarmate abbiamo capito cosa stava per accadere. Abbiamo suggerito subito di provare con le videochiamate” riprende Lento “e, fortunatamente, a Bollate ci hanno dato ascolto. La società con cui abbiamo stretto un accordo ci ha fornito account gratuiti, noi ci abbiamo messo la nostra esperienza nella configurazione di rete. La sera stessa nel penitenziario lombardo hanno cominciato a usare questo sistema e il giorno dopo è stata la volta di Regina Coeli”.

 

Le chiamate dal carcere devono rispondere a una serie di requisiti di sicurezza. Per connettersi è necessario rispettare un rigido protocollo che parte dall’identificazione tramite documento, che il familiare deve mostrare all’agente di turno inquadrandolo con la telecamera. Alla conversazione può essere presente soltanto la persona con cui si è autorizzati a parlare.

 

“Nel pieno della confusione, sappiamo che qualcuno, in preda al panico, ha concesso di usare  altre applicazioni, lasciando il cellulare nelle mani dei reclusi. Non si può certo dire si tratti di un metodo sicuro. È facilissimo, ad esempio, includere alla chat persone non autorizzate. Con il software che abbiamo consigliato, invece, abbiamo possibilità di controllo e gestione molto maggiori”. È la guardia a contattare il familiare e avviare la conversazione monitorandola costantemente su uno schermo. “Inoltre, il detenuto ha di fronte solo un video e le casse, senza alcun contatto con la tastiera. Alla prima anomalia, che può essere anche la presenza nella stanza di un soggetto non autorizzato, la chiamata viene abbattuta”.

 

Nascosto dietro alla poltrona di casa, potrebbe esserci chiunque. “Ma anche durante i colloqui in carcere ci sono venti o trenta persone alla volta”. Piaccia o meno, le cose in carcere funzionano così. E l’equilibrio è estremamente delicato. Le scene dei mesi scorsi hanno mostrato la potenza devastante di una rivolta messa in atto da centinaia di uomini nel pieno delle forze. E le immagini girate con i telefonini sono la prova che gli apparecchi circolano senza troppi problemi all’interno delle strutture, portati dentro da chissà chi. “Usando questa tecnica siamo riusciti a favorire cinquanta- sessante chiamate al giorno che hanno aiutato a stemperare la tensione – conclude  Lento – Per questo credo di poter affermare che abbiamo disinnescato una bomba. No, non siamo eroi. Direi, piuttosto, artificieri”.