Con i videogames che diventano veri e propri film, dando alla sinossi una considerazione sempre maggiore, diventa più stretto il rapporto con la storia americana. Spesso riscritta o reinterpretata da sviluppatori statunitensi
Quanto c’è della storia statunitense nei videogiochi più famosi? E quanto c’è, ormai, dei videogiochi più famosi nella storia statunitense? Che il connubio esista, sia forte e assai stretto è un dato di fatto. Ma che possa persino esserci una osmosi che arriva a influenzare l’immaginario collettivo è la tesi, curiosa e affascinante, che prova a esprimere Lorena Rao, esperta proprio del rapporto tra storia e mass media, nel suo libro “Storia a stelle e pixel – Come il videogioco reinterpreta il Novecento Americano” (Paguro edizioni). StartupItalia l’ha incontrata per sapere qualcosa in più…
Videogiochi e USA, una influenza reciproca?
Lorena, leggendo il tuo libro si scopre che la storia americana è puntellata non solo di opere cinematografiche famose, ma anche videoludiche. Ma partiamo dal principio: in che modo i videogiochi alimentano e influenzano l’immaginario collettivo?
Pur essendo il medium del futuro, il videogioco guarda spesso al passato: basta citare la serie di Assassin’s Creed, che ha costruito il suo successo sulle rappresentazioni storiche, declinate poi in varie epoche. In generale molte serie videoludiche attingono le loro ambientazioni dagli eventi del passato. Rispetto ai media tradizionali, quale il cinema per riprendere la tua domanda, la chiave di volta sta nell’interazione, elemento tipico del videogioco.
La storia, con l’iniziale maiuscola, è una co-protagonista nella saga di AC
Puoi farci qualche esempio?
Prendiamo ad esempio lo Sbarco in Normandia degli Alleati durante la Seconda Guerra mondiale. Una cosa è vederlo in “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg, una cosa è “viverlo” in Call of Duty: WWII. In entrambi i casi c’è l’attracco dell’imbarcazione, la morte dei compagni, le raffiche di proiettili e i bombardamenti nemici. Nel film però assistiamo a tutto questo attraverso gli occhi del capitano John H. Miller, mentre nel videogioco lo viviamo attraverso il nostro alter ego virtuale, il soldato Red Daniels. La visuale in prima persona, i suoi movimenti, quale nemico colpire, dove ripararci: ognuno di questi elementi dipende esclusivamente dalla nostra volontà. È questa l’enorme potenzialità del videogioco: per mezzo dell’interazione il fruitore vive un’esperienza attiva e più coinvolgente. Nel caso di titoli videoludici ad ambientazione storica, la loro capacità di attrazione per un determinato contesto, come appunto la Seconda Guerra mondiale, non è paragonabile rispetto ai media tradizionali.
La saga di Call of Duty poggia sull’epopea bellica USA
C’è un periodo storico “preferito” dalle software house? E perché?
Poc’anzi non ho citato Call of Duty: WWII a caso, in quanto rappresenta l’ennesimo titolo videoludico ambientato durante la Seconda Guerra mondiale. Solo la serie di Call of Duty conta cinque capitoli ambientanti in quel periodo. In una visione tipicamente americana, il secondo conflitto mondiale è molto popolare nelle rappresentazioni mediali, per cui anche in ambito videoludico la situazione non è diversa. Il motivo risiede principalmente nell’aura trionfalistica che circonda gli Alleati. Nel corso del conflitto, la propaganda statunitense ha sempre dipinto l’intervento militare americano come essenziale per consentire al mondo di vivere libero dai totalitarismi, quali il nazismo e il fascismo. Tutt’ora questa visione sopravvive.
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E c’è invece un periodo storico ignorato?
Discorso diverso bisogna fare invece riguardo la Prima Guerra Mondiale. Escludendo titoli importanti come Battlefield I, la Grande Guerra è stata rappresentata principalmente nella sua accezione più romantica, ovvero come violento ingresso nella civiltà moderna, in piccole produzioni come Valiant Hearts: The Great War e 11.11 Memories Retold. Forse perché la Grande Guerra è troppo lontana dai nostri tempi? Forse perché è ricordata come guerra di logoramento? Non saprei dare una risposta specifica al perché della poco “appetibilità” della Prima Guerra mondiale rispetto alla Seconda nelle produzioni videoludiche, ma è evidente la netta disparità. Questo, almeno, per quel che riguarda la Storia Contemporanea, che è il settore di mia competenza.
Ma restiamo alla tua disamina di Call of Duty: come all’inizio del secolo scorso i film sul vecchio West contrapponevano indiani e cowboy, coi cowboy sempre nella parte dei buoni e i pellerossa dei cattivi, nel titolo Activision abbiamo un eroe bianco che salva il mondo. Anche nei videogiochi si perpetrano dunque stereotipi culturali e, se vogliamo, propagandistici?
Direi di sì. Il mio volume è incentrato sulla capacità dei videogiochi di diffondere il soft-power americano, vale a dire la potenza attrattiva di un paese per mezzo dei suoi valori istituzionali e culturali. In un certo senso potrebbe essere intesa come propaganda volta ad enfatizzare le caratteristiche di un determinato paese. Questo vuol dire alimentare degli immaginari già affermati, come il caso del soldato bianco americano rappresentato come un eroe perfetto che combatte contro terribili nemici. Nel caso di Call of Duty, poco importa che questi ultimi siano i nazisti, i fascisti giapponesi, i comunisti coreani, i vietcong, o addirittura gli zombie: senza alcuna differenza critica, loro simboleggiano il male da essere debellato.
I vg spesso trattano passaggi controversi. Come l’apporto di Calogero Vizzini nella riuscita dello sbarco in Sicilia
La stessa cosa può dirsi anche sulla differenza di genere?
Sì, è davvero difficile trovare personaggi femminili nel ruolo di protagoniste nei videogiochi a tema bellico. Quando ci provò DICE con Battlefield V nel 2018, il gioco fu aspramente criticato dai videogiocatori per la presenza di una donna nel ruolo di combattente, tra l’altro presente pure sulla copertina del gioco. Le critiche si appellavano al rigore storico, ma in realtà hanno permesso di evidenziare la visione prettamente maschile presente nel panorama videoludico. Ultimamente le cose stanno cambiando in meglio, almeno nel discorso generico di eroine femminili nei videogiochi, ma la strada da fare è ancora molta per far sì che certi stereotipi crollino.
Spesso, opere come Il Padrino (nella sua duplice versione ‘romanzo / pellicola’) sono state accusate di fornire una versione romantica e romanzata di eventi negativi. Nel tuo libro citi per esempio la saga di Mafia: anche i videogiochi – già al centro di numerose polemiche – corrono rischi analoghi quando tentano di ricostruire fin troppo fedelmente fatti storici e i loro oscuri protagonisti?
La serie di Mafia è un esempio molto affascinante. Da una parte è estremamente rispettosa della Storia. Nel corso dei suoi tre capitoli ci ritroviamo a compiere un viaggio nelle metropoli americane, nonché roccaforti principali della mafia italo-americana, come Chicago, New York e New Orleans, partendo dagli anni Trenta sino ad arrivare al 1968. Le varie decadi in cui sono ambientati i capitoli della serie rappresentano una certa cura nella rappresentazione storica. Per esempio, pur essendo incentrata sulla mafia italo-americana di matrice siciliana, la serie dà una panoramica sfaccettata della criminalità organizzata americana, che non si traduce esclusivamente in quella di origine italiana. Nel corso dei suoi capitoli dobbiamo interagire con la mafia cinese, ebraica, irlandese, haitiana, e così via. Già questa è una scelta molto interessante, che spazza via lo stereotipo del mafioso come frutto tipicamente italiano. Poi ci sono casi in cui la rappresentazione storica cede il passo alla leggenda piuttosto che alla realtà dei fatti, come il contributo della mafia per l’Operazione Husky in Sicilia nel 1943. Non riterrei però la serie di Mafia pericolosa per la scelta dei suoi protagonisti. Il loro modo di fare fascinoso ed intrigante è ripreso dal filone, prima letterario e poi cinematografico, della mafia story, ma nei dettagli è possibile scovare la grande sensibilità dei diversi team di sviluppo che hanno lavorato ai tra capitoli della serie. Basta voler andare “oltre al videogioco”.
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Dedichi un vasto capitolo alle questioni di genere e ai diritti civili. Puoi raccontare brevemente ai nostri lettori – specialmente a chi non ha mai impugnato un pad – come vengono trattati nei vg argomenti così importanti e tuttora al centro del dibattito politico?
Mafia III è sicuramente l’esempio più calzante. È ambientato nel 1968 e il nostro protagonista è Lincoln Clay, un afroamericano reduce dalla Guerra del Vietnam. È la prima volta che la serie adotta un personaggio che non sia il mafioso italo-americano, quindi un protagonista bianco. Complice l’anno di ambientazione che vede l’assassinio di Martin Luther King e il processo della lotta per i diritti civili degli afroamericani ancora in corso, il razzismo impregna l’intero gioco.
Il tema del razzismo è affrontato in Mafia 3
Puoi fare qualche esempio così da fare capire anche a chi non lo ha giocato?
Certo. Vi sono per esempio i negozi segregazionisti, con il cartello “Vietato entrare alle persone di colore”. Vi è il controllo serrato della polizia nei nostri confronti, soprattutto se girovaghiamo per i quartieri bianchi e altolocati della città di New Bordeaux/New Orleans. Veniamo spesso insultati in quanto afroamericani. Insomma, l’atmosfera all’interno del gioco è molto tesa, e mette in evidenza lo status degli afroamericani di fine anni Sessanta. Un discorso simile lo si può fare per le donne, da sempre poco presenti nei primi due capitoli di Mafia. Nel caso di Mafia III, i personaggi femminili ricoprono ruoli secondari, ma i dialoghi con loro, le loro missioni, rimandano ai cambiamenti scaturiti dalla seconda ondata femminista degli anni Sessanta. Al di là del contesto storico, entrambe le considerazioni credo siano ricollegabili anche alla crescente sensibilità di una parte del pubblico videoludico che desidera il videogioco maggiormente inclusivo per tutte le categorie. Vero è che quanto detto non è evidente, specie il discorso legato ai personaggi femminili, ma è possibile carpirlo con la giusta forma mentis e preparazione culturale. L’aspetto più interessante, che è quello su cui si fonda il volume, è la validità del videogioco come strumento da analizzare in quanto “agente di storia”, poiché le rappresentazioni al suo interno rielaborano il passato secondo le concezioni del presente e le aspettative per il futuro.
Tenendo in considerazione i titoli usciti finora, trovi che permettano di approfondire in modo divertente ma puntuale certi argomenti oppure ritieni che sia meglio affrontarli studiandoli prima seriamente a scuola, sui libri, per non inciampare in riletture grossolane o volutamente distorte?
Buona parte degli storici tradizionali guarda con scetticismo ai media, in quanto sono tra i principali produttori di divulgazione storica. Una divulgazione che spesso si collega ad immaginari collettivi già assodati, come abbiamo visto per la Seconda guerra mondiale, di conseguenza non direi di prendere i media, e quindi i videogiochi, come strumenti utili per studiare pedissequamente la Storia. Sicuramente, grazie soprattutto all’interazione di cui parlavamo prima, i videogiochi consentono di incuriosire i giovani e in generale i videogiocatori verso uno specifico contesto, personaggio, luogo storico. Da lì può scattare la scintilla per approfondire tale elemento storico attraverso lo studio di fonti più attendibili – sebbene mi preme sottolineare che durante la produzione di videogiochi a tema storico sempre più spesso figura il ruolo del consulente storico – come libri di testo o documentari.
Fallout 3 concretizza il rischio di guerra nucleare estremizzando le paure statunitensi della metà del secolo scorso
Hai qualche aneddoto in merito?
Ho vissuto questo passaggio, diciamo, in prima persona: dopo la laurea in Lettere a Catania ho deciso di specializzarmi in Storia contemporanea a Roma Tre, dando preferenza ai corsi legati alla Storia americana, per la passione scaturita in questo ambito da Fallout 3, incentrato sull’atomic age del secondo dopoguerra. Arrivata a Roma, è stato bellissimo scoprire che parte dei miei colleghi universitari hanno intrapreso lo studio della Storia per i miei stessi motivi. Nel loro caso la passione per il passato è nata grazie ai capitoli della serie di Age of Empire e Total War. Insomma, il videogioco può non essere lo strumento adatto per studiare una disciplina delicata come la Storia, ma può portare a dei risvolti interessanti. Questo per quel che riguarda in generale il videogioco come intrattenimento, perché poi esistono casi di titoli dalla forte vena didattica, come appunto Valiant Hearts: The Great War. Il mio augurio è quello di vedere superato lo scetticismo menzionato prima da parte degli storici e di esperti del settore, perché unendo le forze si possono raggiungere nuove vette, in grado di far appassionare le nuove generazioni a una disciplina che – soprattutto recentemente – viene messa erroneamente in secondo piano.