Da IBM all’incarico più difficile: sostituire l’uomo che ha cambiato tutto
Il 24 agosto 2011 è stato il primo giorno di Tim Cook come nuovo amministratore delegato di Apple. Steve Jobs, il visionario imprenditore che ha rivoluzionato la tecnologia e la vita di tutti noi, sarebbe scomparso pochi mesi dopo, il 5 ottobre. Quel passaggio di testimone ha segnato un prima e un dopo nella storia di una delle aziende più innovative del pianeta. Nel prima c’era un Ceo – Jobs – con un talento innato per anticipare i trend globali e confezionare prodotti tech in grado di soddisfare bisogni e necessità inaspettati perfino per i clienti stessi; nel dopo ci sarebbe stato un nuovo corso per la Mela morsicata, azienda data più volte per morta nel post-Jobs, e che fino a dieci anni fa non si era mai distinta per il proprio impegno nei confronti dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. Non sono certo mancati gli scontri con la politica e le autorità. E, va da sè, le frizioni non mancheranno in futuro.
Chi è Tim Cook
Nato il primo novembre del 1960 a Mobile, Alabama, Tim Cook è cresciuto in una famiglia religiosa a cui è sempre rimasto legato. «La fede è sempre stata una parte importante nella mia vita», ha scritto in un editoriale pubblicato sul Washington Post nel 2015. La sue sono state un’infanzia e un’adolescenza felici e durante il periodo della formazione scolastica si è subito distinto per intelligenza, leadership e simpatia. Di lui, come si legge nel libro di Leander Kahney, tutti hanno un ottimo ricordo, come di un giovane talentuoso ed estremamente socievole. Ritratto che quasi nessuno avrebbe visto combaciare con quello delle prime uscite pubbliche in qualità di nuovo amministratore delegato di Apple.
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Dopo gli studi Tim Cook ha fatto presto carriera dentro IBM, dove è arrivato a ricoprire l’incarico di direttore della produzione e della distribuzione per tutto il nord America; nel 1994 è passato a Intelligent Electronics come responsabile della distribuzione di tutti i prodotti e servizi di una società con 3,2 miliardi di dollari di capitalizzazione. Prima dell’arrivo a Apple, ha lavorato un semestre a Compaq, aiutando l’azienda che aveva lanciato Presario 2000 – un computer per non addetti ai lavori e più economico – a convertirsi al modello di produzione build to order, necessario per avviare la produzione solo nel momento in cui arrivavano gli ordini.
L’11 marzo 1998 è stato il primo giorno di Cook dentro Apple, che lo aveva corteggiato a lungo. Il suo primo incarico: vicepresidente senior della operazioni a livello globale. L’azienda era vicina alla bancarotta. “Cook odiava le giacenze di magazzino con lo stesso ardore con cui Jobs non sopportava un cattivo design”, scrive Kahney. La storia avrebbe dimostrato che con il nuovo millennio – primo con l’iPod, poi con l’iPhone – Apple avrebbe ribaltato una situazione di crisi in una posizione di dominio quasi culturale sul mercato tech.
Cook: il nuovo corso
Prima del 24 agosto 2011, Tim Cook aveva già ricoperto il ruolo di Ceo di Apple, incarico svolto però sempre in attesa del ritorno in azienda di Steve Jobs, che continuava a confrontarsi con i suoi drammatici problemi di salute. Pochi mesi dopo la sua morte, la prima sterzata che il nuovo ad ha dato all’azienda è stato l’impegno nel campo della beneficienza. Come emerge nella biografia di Walter Isaacson, Jobs è stato sì un Leonardo da Vinci dei nostri tempi, ma al tempo stesso un uomo che poteva essere crudele e spietato con i suoi collaboratori, senza troppe sensibilità nei confronti del green e del ruolo sociale dell’impresa.
Ai tempi di Jobs le accuse di sfruttamento della manodopera all’interno di aziende fornitrici come Foxconn non hanno mai spinto l’amministratore delegato a scomporsi. Cook, invece, ha dato il via a una lunga serie di visite degli stabilimenti in Asia, per toccare con mano la vita quotidiana di chi doveva costruire gli oggetti tech del desiderio per milioni e milioni di consumatori in tutto il mondo. Al tempo stesso Cook ha cambiato il volto di Apple nel campo della sostenibilità.
Diritti e ambiente
L’industria tech ha ancora diverse zone d’ombra e le accuse di obsolescenza programmata che spingono montagne di prodotti verso la discarica richiedono ancora lavoro e impegno da parte del settore. C’è poi il capitolo sull’utilizzo di materiali inquinanti e sullo sfruttamento delle terre rare, la cui filiera è invisibile nella catena di produzione, con ingiustizie e sfruttamento lasciati senza colpevoli. Da anni anche noi di StartupItalia riportiamo il cambiamento in atto di Apple e altre Big Tech. Gli investimenti nell’eolico, nel solare, nella mobilità elettrica sono fatti, ma per i critici ancora briciole se confrontate ai miliardi che queste società guadagnano.
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San Bernardino e il caso Fornite
Per completare il ritratto di Tim Cook come Ceo di Apple dell’ultimo decennio occorre focalizzarsi su due episodi significativi. Il primo è la reazione dell’azienda dopo la strage di San Bernardino il 5 dicembre 2015 (14 morti): l’iPhone di Syed Farook, uno dei due attentatori, doveva essere sbloccato e così l’FBI ha chiesto alla multinazionale di sviluppare una versione ad hoc di iOS per consentire all’agenzia di sbloccarlo e accedere a prove necessarie alle indagini. Per un’azienda che ha fatto del diritto alla privacy una parte fondamentale della propria mission questa richiesta non era accettabile. Il rischio, secondo Cook, era che creando quella che in gergo si chiama una backdoor, si sarebbe in realtà ottenuto uno strumento pericoloso e parecchio ambito dai criminali informatici.
Pochi mesi dopo un giudice ha dato ragione a Apple per un caso analogo di un’iPhone di uno spacciatore, che l’azienda si era rifiutata di sbloccare. Incassata la vittoria, nonostante le iniziali critiche da parte dell’opinione pubblica globale, la circostanza ha rappresentato un precedente notevole in cui una multinazionale più grossa e potente di interi stati è riuscita a dire di no a un’agenzia federale. L’altro fatto eclatante che ha riguardato la guida di Tim Cook è stata la notizia bomba dell’estate 2020: ad agosto Apple ha cacciato Fortnite dall’App Store a seguito della decisione di Epic Games – software house dietro al videogioco più famoso al mondo – di bypassare il pagamento istituzionale con un metodo più economico.
Ne è nato un caso giudiziario ancora in corso che ha messo Apple di nuovo sotto i riflettori. Per alcuni la tassa del 30% che l’App Store impone è eccessiva, per altri (Apple compresa) è anche un modo per garantire la qualità dell’ecosistema app. Nel frattempo i Big Tech hanno vissuto anni di confronto e scontro con la politica: i Big Four (Apple, Amazon, Facebook e Google) non sono più scoppiettanti startup, ma giganti che sarà sempre meglio conoscere.