Anche gli unicorni si azzoppano. Pochi mesi fa TechCrunch ha titolato “Losing the horn”. Ma è davvero così? Su StartupItalia al via un confronto con i VC sui campioni mondiali dell’innovazione. Intervista al Chairman di Mind the Bridge
Unicorni scornati è il nostro speciale sullo stato di salute degli unicorni e quindi sulle aziende valutate almeno 1 miliardo di dollari. Pochi mesi fa TechCrunch ha pubblicato un articolo dal titolo assai eloquente: “Losing the horn”. «Gli ultimi anni sono stati su un ottovolante per il branco di unicorni del mondo delle startup. Due anni fa abbiamo visto un numero record di aziende superare il traguardo della valutazione di 1 miliardo di dollari. Ma quello slancio si è rallentato fino a ridursi lo scorso anno e le condizioni di mercato di questo 2023 sembrano destinate a invertire la rotta», ha scritto Rebecca Szkutak. Noi siamo partiti da una semplice domanda: che fase storica è per gli unicorni in Italia e nel mondo? Un modo per comprendere lo stato di salute dei grandi player tra rischi, cautele, opportunità.
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«In Silicon Valley quelli molto bravi si fanno la propria startup. Quelli bravi si scelgono la startup con la possibilità di exit più alta in cui lavorare. Sono le situazioni in cui si esce con più soldi in tasca. Inutile cercare gli unicorni: non esistono». Alberto Onetti, Chairman di Mind the Bridge, è stato uno dei primi esperti di innovazione in Italia. E non soltanto in quanto professore di economia. «Temevo di vivere la situazione in cui avrei insegnato cose che, in realtà, non avevo fatto. Così durante il dottorato abbiamo iniziato a fondare startup – spiega a StartupItalia -. Era la fine degli anni Novanta: ma abbiamo pagato tempo – troppo presto – e luogo – l’Italia non era pronta».
Con Fabrizio Capobianco, che ha studiato insieme a lui a Pavia al Collegio Borromeo, ha dato poi vita alla software company Funambol. «Abbiamo raccolto fondi in Silicon Valley e tenuto lo sviluppo software in Italia. Oggi a Pavia contiamo su una quarantina di sviluppatori. Nel 2005 sono arrivati i primi 5 milioni. Una fatica: abbiamo parlato con 99 venture capital». Onetti non è dunque alieno al settore, avendolo vissuto da imprenditore all’estero, in anni in cui di startup in Italia nemmeno si parlava.
Gli unicorni non esistono
Come ci è capitato in tutte le altre puntate di Unicorni scornati, la sua visione sugli unicorni non può non partire dal contesto internazionale per scendere poi al settore italiano, dove comunque passi avanti sono stati fatti. Da anni, con Mind the Bridge, Onetti si occupa di affiancare le grandi imprese in percorsi di open innovation. «Il posto dove mi trovo più spesso è un sedile della British Airways», dice prima di dire la sua sul periodo che sta vivendo l’ecosistema.
«Dobbiamo demistificare gli unicorni – argomenta -. Ci sono startup che crescono, startup che muoiono e altre che fanno una exit. La grande maggioranza muore, alcune evolvono e diventano scaleup. E di queste una piccola parte diventa un tech champion. Chiamiamolo unicorno se ci piace la fantasia». Nel panorama internazionale Onetti sottolinea anche un altro elemento: «La maggior parte delle startup di successo viene poi acquisita, mentre poche fanno l’IPO». La quotazione in Borsa, a suo modo di vedere, «è il colpo da manuale». Ma difficile da eseguire, soprattutto in questo frangente storico.
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Il valore del tempo
«Il canale delle IPO è al momento chiuso. E se si guarda al numero di exit è il più basso dal 2013». Dopo anni di crescita e iper valutazioni, il ridimensionamento attuale non è un fatto bizzarro, ma rientra in una logica del tutto prevedibile se vista nell’ottica di un venture capital. «Il mondo delle startup VC-backed è popolato da soggetti che hanno un orizzonte di investimento dai 5 agli 8 anni. A un certo punto, alzano la mano e chiedono indietro i soldi. Il lasso di tempo non è così esteso. Molte di queste startup, per crescere velocemente, fanno acquisizioni». Questo perché, come spiega Onetti, «una startup è una lotta contro il tempo: il tempo degli investitori e il tempo di mercato».
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La vivacità che le exit danno all’ecosistema è un elemento importante. «Nel momento in cui una startup viene comprata piove denaro e una buona valutazione viene riconosciuta a founder e dipendenti. Molti – in particolare quelli bravi – escono con esperienza, reputazione e soldi e ripartono con una propria startup. Si parla di span-out. Qui forse l’esperienza più interessante che abbiamo avuto in Italia è stata quella di Dada, che ha generato tanti spin off».
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Oggi le exit e le IPO sono ferme, il comparto rallenta con varie ripercussioni, tra migliaia di licenziamenti e inviti a efficienza e cautela. «Se nessuno fa exit, i soldi rimangono incastrati nel giocattolo». Concentrandosi sull’Italia Onetti esaspera il concetto: «Il problema che è in un mercato dove ci sono poche exit butti dentro soldi nuovi in continuazione, perché quelli vecchi non escono». Se è vero che l’Italia è cresciuta come ecosistema e casi di successo, l’esperto ragiona sulle spinte che l’hanno reso possibile. «CDP Venture Capital ha messo tanto denaro nel sistema. Non è stata una mossa sbagliata, forse tardiva. È stato un cambio di passo per l’ecosistema, ma l’Italia ha fatto quello la Francia ha fatto nel 2012 con Hollande e poi rafforzato da Macron. Se togli i round di Scalapay e Satispay arrivi a un billion scarso di raccolta nel 2022».
In un momento in cui si parla sempre più spesso di startup nation, quali sono i paesi e gli ecosistemi più promettenti? « Ci sono ecosistemi che hanno una densità di innovazione inarrivabile come la Silicon Valley: 700 billion raccolti valgono come 27 paesi europei – conclude Onetti -. Israele, con 100 billion, fa i numeri di Francia e Germania messi insieme. La Corea del Sud sta crescendo tantissimo, mentre la Cina è difficile da mappare e si sta isolando. In Europa siamo nel gruppo di coda, dietro alla Spagna e davanti al Portogallo».