Classe ‘91, nata in un piccolo paese tarantino, quella di Antonella Palmisano è la storia di una giovanissima ragazza ribelle, piena di talento e voglia di vincere, che oggi riesce a trasmettere agli studenti tutta quella passione che ha sempre caratterizzato il suo percorso. La storia di una vera Underdog, che con quel mix di forza di volontà, intelligenza e ambizione è riuscita a diventare campionessa olimpica italiana di marcia. La strada da percorrere è stata impervia e le è costata il sudore di milioni di canotte, nel suo caso, ma non si è mai data per vinta, rincorrendo, sempre, il suo sogno. La abbiamo intervistata con l’intento di riuscire a cogliere tutta quell’energia che l’ha spinta sino a oggi e che le dà la carica giusta verso altri importanti traguardi.
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Dal piccolo paese alle piste internazionali
Questa storia inizia a Mottola, tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000, quando una giovanissima Antonella, stanca di una mentalità così lontana dalla sua e per certi versi opprimente, decide il suo futuro. Che non sarà in quel paesino tarantino, ma sulle piste di atletica. «Ero molto stanca di quel modo di pensare così chiuso, molto diverso dal mio, che faceva fatica persino a concepire che una ragazzina di 18 anni potesse uscire dal paese e creare la sua indipendenza – racconta Antonella – È stata una sfida quotidiana anche con mio padre, che non voleva che andassi fuori da quel quartiere».
Poi che cosa è successo?
A 19 anni sono entrata nella Guardia di Finanza, e quel momento per me ha rappresentato una svolta: avevo la mia indipendenza e mi sono subito comprata una macchina. Da lì in poi è iniziata la mia vera carriera, lontano dal mio paese, sulle piste di atletica.
Quale è stato il tuo primo approccio con l’atletica?
Simpatico, durante una Gara della gioventù di terza media. In quell’occasione mi notò l’allenatore e da quel momento è iniziato tutto. Dopo 6 mesi ho vinto il primo campionato italiano di marcia e, poi, ho iniziato a prendere sul serio questa attività. Inizialmente l’atletica era la mia valvola di sfogo, anche un modo per sentirmi parte di un gruppo, dato che nel mio paese si usciva anche poco con gli amici.
Ti sei costruita quindi la tua cerchia sociale attorno allo sport?
Esattamente, soprattutto con le prime trasferte. Devo dire che io non sono mai stata una “tipa da discoteca”, la mia prima uscita in pista (da ballo) è stata a 22 anni, ma la movida non mi ha mai attratta più di tanto.
Quali vittorie ricordi con più emozione?
Sicuramente la Coppa del mondo del 2010. Ero a Chihuahua, in Messico, dove ho vinto la medaglia d’oro nella prova femminile Juniores su 10 chilometri di marcia. Sono stata l’unica atleta donna ad aver vinto una competizione a livello giovanile di rilievo. In quel momento ho capito che di fronte a me c’era quella strada. Un altro episodio importante è stata l’Olimpiade di Tokyo del 2020. Mi ero infortunata poco prima e non sapevo neanche se vi avrei potuto prendere parte, invece ho vinto la medaglia d’oro nella 20 chilometri. Infine, l’anno scorso, nonostante la caduta a 2 chilometri dalla fine, sono arrivata terza ai campionati Mondiali di Budapest sulla distanza di 20 chilometri.
Hai mai avuto dei momenti in cui hai pensato di non farcela?
Si, come tutti credo, ma penso anche che a volte serva toccare il fondo per andare in alto. Ho passato intere giornate a piangere, mi sentivo come chiusa in una bolla nonostante il mio team fosse sempre lì, pronto a risollevarmi. Ho sentito il bisogno di avere accanto una figura che seguisse anche il mio lato psicologico, ed è stato anche grazie al mio mental coach se sono riuscita a superare certi momenti di difficoltà. Si tratta di una figura importante che non solo ti sta accanto ma ti dà anche gli strumenti per migliorarti e alzare l’asticella.
Coltivi anche altre passioni oltre all’atletica?
MI piace correre in autodromo, la fotografia, l’interior design e cambiare spesso acconciature ai capelli. Per questo motivo alcuni mi definiscono “la marciatrice dal fiore in testa“. Sono anche molto impegnata nella divulgazione di questa disciplina, che curo anche sui miei profili social, ma non solo. Porto la mia esperienza anche nelle scuole, parlando a una platea di giovanissimi studenti che non conoscono questo sport quasi per niente ma che, allo stesso tempo, si mostrano molto curiosi.
C’è qualcosa che non ti piace del tuo lavoro?
L’unica cosa che non mi va tanto a genio è non essere riconosciuta come atleta al pari, ad esempio, di altri atleti. La mia disciplina per la maggior parte delle persone è uno sport sconosciuto. Da una parte provo una sensazione di frustrazione, mentre da un’altra mi sento spronata a fare sempre meglio e a dare sempre di più.
Che consigli daresti a chi, invece, vuole intraprendere una carriera come la tua?
Direi di avere ambizioni, non porsi limiti, superarli per andare oltre, uscire dai canoni e crearsi la propria strada, costruendo, passo dopo passo, il proprio futuro.