L’Annapurna, il K2, l’Himalaya. Donatella Barbera, professione medico chirurgo, passione alpinista, alcune di queste vette le ha sfidate, altre per lei sono ancora un sogno nel cassetto da trasformare, a breve, in realtà. Una passione per la montagna che l’accompagna da sempre, che a 14 anni l’ha portata a scappare dall’oratorio per scalare la montagna senza dire niente a nessuno. Una passione che l’ha spinta per il mondo, ogni volta alla ricerca di qualcosa di nuovo. In tasca tutto l’occorrente per il primo soccorso, in testa quella voglia di spingersi oltre i propri limiti. Biellese, classe ’70, Donatella Barbera da più di 20 anni lavora come medico in Inghilterra ma da quella passione che l’ha travolta non se ne è mai separata, reinventandosi e dividendosi tra lavoro, montagna e volontariato. Perchè la sua missione, oltre a quella di sfidare i propri limiti, è da sempre quella di aiutare l’altro. Per la nuova puntata di Unstoppable Women, la storia di Donatella, donna dalle tante passioni che non ha mai mollato anche nelle più tragiche avversità, come la perdita di un’amica in montagna sotto i suoi occhi.

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Donatella, quando è iniziata la tua passione per la montagna?
A Biella, dove sono nata, c’è una tradizione molto radicata nel territorio di escursionisti e appassionati della natura verde. Ho vissuto lì fino a 18 anni ma ricordo benissimo che già prima di diventare maggiorenne era scattata in me quella voglia di andare alla scoperta della montagna. In particolare, c’è un episodio che mi ha ricordato recentemente un amico che lo trovo abbastanza esemplare: avevo 14 anni e frequentavo l’oratorio. Durante una gita in Valle d’Aosta la sera sono scappata da sola per andare in giro per la montagna. I miei genitori non sono appassionati come me, anzi mia madre odia la montagna anche perché alcuni amici di famiglia in passato hanno perso la vita durante le escursioni. Ma io ero riuscita a mantenere il segreto, finché a Natale un amico è venuto a casa e, convinto che i miei sapessero quanto era accaduto, ha svelato tutto. Ricordo la faccia di mia madre sotto shock. Poi è capitato che, proprio perchè i miei non volevano che mi avventurassi in montagna, dicevo che ero in un posto e in realtà partivo per fare qualche escursione. Insomma, sono sempre stata un po’ ribelle.
Oggi tu sei un medico, come sei riuscita a unire queste due passioni?
Si, anche la voglia di aiutare l’altro è sempre stata per me un motore. Così, dopo il liceo, mi sono iscritta a Medicina a Pavia e ho lasciato Biella. Da allora ci torno ogni tanto per andare a trovare la mia famiglia ma oggi lavoro in Gran Bretagna. Mi sono trasferita là 20 anni fa, su consiglio di un collega irlandese che avevo conosciuto al corso e che mi aveva parlato di Nottingham. Sono andata là per 3 mesi, poi 6, poi sono diventati 2 anni. Sono rientrata in Italia per finire la specialistica e poi sono tornata a Nottingham e così sono passati 28 anni. All’inizio avrei voluto fare il cardiochirurgo, poi la senologa, ma in Inghilterra mi sono specializzata nei tumori del colon retto e oggi sono un chirurgo di emergenza. Vivo a Manchester e ho un contratto di lavoro particolare che mi permette di potermi allontanare per lunghi periodi e partire per le spedizioni.

Un equilibrio che non deve essere stato facile da trovare..
No, prima di trovare questa formula mi sono licenziata diverse volte perché mi dicevano: “Non puoi lavorare in questo modo e assentarti per lungo tempo” ma io non ho mai voluto rinunciare al mio sogno e questo mi ha spinto, appunto, a dovermi licenziare diverse volte. Considerando che le spedizioni che seguono possono durare anche 3 mesi, c’è poi tutta la preparazione prima che quindi mi porta via anche altro tempo. Oggi, invece, riesco a lavorare 4-5 mesi in ospedale, 3 mesi in barca perchè seguo delle spedizioni per una onlus canadese tra i ghiacciai e il resto del tempo vado in montagna. Questo equilibrio è arrivato molto tardi nella mia vita, da un lato mi dicevano che la chirurgia non faceva per me perché volevo fare anche altre cose, da un altro sostenevano che non sarei mai stata una brava alpinista perché avrei dovuto stare in montagna 365 giorni all’anno ma per me tralasciare una passione piuttosto che un’altra significava reprimere quello che sono. Licenziarsi non è mai facile, nè economicamente né mentalmente ma non ho figli e mi ritengo fortunata a non aver dovuto sacrificare nulla.
Parlando delle tue spedizioni, quale è stata quella più difficile?
Senza dubbio quella sul K2, durata 2 mesi e mezzo. Da un punto di vista fisico e di performance, è la montagna più difficile da salire. L’anno scorso abbiamo combattuto con il vento, tra rocce e percorsi molto ripidi. Lì qualunque spostamento è rischioso e si devono calcolare molti fattori prima di partire. Direi che è, in assoluto, la montagna più difficile del mondo. Quest’anno, invece, sono stata sull’Annapurna, la decima più alta del mondo e poi a ottobre spero di conoscere Kangchenjunga, la terza più alta del mondo.
Tu parti anche come medico, quale è stato il salvataggio più difficile finora?
Nel 2009 in una spedizione commerciale affiancata a una spedizione italiana. In quell’occasione conobbi Cristina Castagna, diventammo amiche, poi è successa una tragedia, ci sono stati problemi di acclimatazione e durante la spedizione non è sopravvissuta mentre io ho avuto un edema cerebrale ma ce l’ho fatta. Quella è stata l’esperienza più drammatica della mia vita. Ancora oggi vivo con il senso di colpa di non averla potuta aiutare. Mi sono chiesta se valeva davvero la pena rischiare la vita per questa passione, non è facile da accettare vedere persone che ti muoiono accanto. In montagna tutti i problemi piccoli che nella vita quotidiana hanno poco impatto sono amplificati. Tipo non avere appetito, non dormire, diventano problemi gravi. Se non hai mangiato, comincia la nausea ti disidrati ed è difficile scendere, se non hai dormito non sei più concentrato. Spesso chi muore in montagna non è per un grande incidente ma per queste ragioni.

Tu sostieni anche delle onlus?
Si, faccio anche il medico di spedizione per una compagnia, Adventure Canada, con cui sono andata via 3 mesi. Nata in Ontario, navighiamo nell’Artico e trasportiamo fino a 170 passeggeri, che possono anche relazionarsi con la cultura Inuit, molto aperta e che non conoscevo affatto. Fare qualcosa che possa aiutare gli altri è un’altra delle mie missioni. Ho passato molto tempo anche in Bolivia, nelle Ande, dove ho formato altri medici con l’idea di mettere in comunicazione la mia realtà biellese con quella boliviana. Cosa che faccio con la onlus “Mani Aperte Kamasa”.

E quali sono le tue prossime frontiere?
A me piace il movimento lento, che permette di scoprire cose nuove. Vorrei attraversare l’Himalaya a piedi. Ci sono montagne che non sono note in regioni remote dove i campi base non ci sono o non sono attrezzati. Mi piacerebbe salire sull’Himalaya dal versante indiano ma per adesso sto concentrando le mie energie su Kangchenjunga per arrivarci dal versante nepalese.
Hai mai avuto davvero paura?
Si, certo, la paura mi accompagna spesso e penso che avere paura sia anche una cosa positiva. Se ho paura, rifletto di più, se non ce l’hai è come se perdessi una connessione con la vita. Durante l’ultima spedizione che ho fatto sull’Annapurna con Gian Luca Cavalli, accademico del Cai, già capo della spedizione biellese al K2, e la guida andina Cesar Rosales, loro due sono stati travolti da una valanga e ho avuto molta paura che fossero morti. È un’emozione strana la paura perché in alcuni mette dei limiti mentre in altri serve da motore. Io non voglio vivere “sotto anestesia” ma sentire anche queste sensazioni.