I più recenti dati dimostrano che le discriminazioni di genere nella ricerca scientifica persistono, sia in termini di compenso che si posizioni ricoperte. Una serie di esperti ne hanno parlato durante la diretta di LIFE “La ricerca clinica e scientifica declinata al femminile: a che punto siamo”, mostrando come sia necessario un cambio di mentalità
Un vaccino ci salverà. È quello che più o meno tutti – tolti probabilmente i no vax – stanno pensando da quando l’arrivo del virus Sars-Cov2 ha sconvolto l’esistenza sul Pianeta. Pochi però immaginano che la prima persona a introdurre in occidente il principio su cui si basano i vaccini sia stata una donna. Lady Mary Wortley Montagu precisamente, giovane nobildonna inglese, moglie di un ambasciatore inglese di stanza a Istanbul, che durante gli anni trascorsi in oriente imparò la tecnica ottomana dell’inoculazione del vaiolo. Siamo nel 1716 e in questo periodo a sconvolgere la vita degli abitanti della Terra è appunto un altro virus, il vaiolo.
La nascita della vaccinazione
La tecnica di variolazione – che Lady Montagu imparò dalle donne segregate nella zenana (appartamenti interni a un palazzo nei quali vivevano le donne di una famiglia) – consisteva nell’inoculare il pus raccolto dalle pustole delle persone lievemente malate di vaiolo (e con esso, di conseguenza anche il virus) dentro le narici o piccoli taglietti in persone sane. Attivando in questo modo il sistema immunitario contro il virus e, nella stragrande maggioranza dei casi, proteggendo loro dal vaiolo (questo primo contatto permetteva di sviluppare gli anticorpi contro il virus del vaiolo, che sarebbero tornati utili in caso di una successiva “vera” infezione). La tecnica che Lady Montagu descrisse nelle sue lettere come “innesto”, incontrò però resistenza una volta tornata in occidente nel 1718 e fu perfezionata solo in seguito, nel 1796, da Edward Jenner sostituendo il vaiolo umano con quello bovino. La tecnica della vaccinazione era nata.
Da quando si ha memoria le donne hanno sempre avuto un ruolo nella scienza e nella medicina, come racconta anche Gabriella Greison, fisica, attrice e scrittrice intervenuta durante la diretta di LIFE – La salute che verrà, “La ricerca clinica e scientifica declinata al femminile: a che punto siamo”. Ma c’è voluto tempo prima che anche loro avessero libero accesso all’accademia.
I dati delle università italiane
Ancora oggi le disparità all’interno delle università sono tante. Lo ricorda anche Anna Odone, professoressa ordinaria di Igiene, presso l’Università di Pavia – la più giovane donna a ricoprire questo ruolo in Italia, dove l’età media è 60 anni – sempre durante la diretta di LIFE: “Secondo i dati del ministero dell’istruzione la percentuale di uomini e donne che lavorano come docenti e personale tecnico-amministrativo è pari, al 50%. Ma le differenze compaiono se si stratifica per funzioni: le donne sono il 60% del personale tecnico-amministrativo, il 40% degli accademici strutturati e il 33% dei professori ordinari”.
Le donne nella ricerca
Guardando ancora i dati, le donne che si occupano di ricerca sono il 31,7% contro il 68,9% degli uomini nei paesi OCSE. Così anche negli Stati Uniti, dove le donne che lavorano in ambito scientifico si attestano al 24% contro il 76% degli uomini. In Italia la ricerca nel 36% dei casi è declinata al femminile, come certifica l’Annuario Scienza e Tecnologia di Observa Science in Society. Il problema dunque è globale, tanto che “raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze” è il quinto dei 17 Obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile sottoscritta nel 2015 dai governi di 193 Paesi membri dell’Onu.
Va meglio forse nell’industria: Mario Merlo, General Manager di Sanofi Pasteur che ha aperto l’incontro ricorda come nella loro realtà le donne siano il 63% del personale. “Spetta anche ai manager garantire un equilibrio di genere” afferma. E ricorda anche l’importanza della medicina di genere, un aspetto ancora poco studiato dopo tutto, anche in ambito preventivo.
Il ruolo delle donne nella pandemia di Covid-19
Ma se le donne sono ancora poco rappresentate nelle STEM (la scienza, la tecnologia, l’ingegneria e la matematica), quelle che lavorano in ambito clinico sono in realtà anche più degli uomini. In Italia per esempio secondo i più recenti dati del ministero della Salute, il 67% del personale del Servizio sanitario nazionale (SSN) è composto da donne, contro il 33% di uomini. Un dato che probabilmente è saltato all’occhio anche durante la pandemia di Covid-19, dove le donne sono state in prima linea per affrontare l’emergenza. Basti pensare a Maria Rosaria Capobianchi, direttore del Laboratorio di Virologia dello INMI Lazzaro Spallanzani di Roma e le colleghe Concetta Castilletti e Francesca Colavita, che sono riuscite a isolare il nuovo coronavirus per prime in Italia. Ma non solo. “Il ruolo delle donne è stato centrale nella gestione della pandemia, che ha avuto un impatto diretto importante su diversi aspetti della vita sociale e lavorativa” commenta Odone.
Un problema culturale
Lo conferma Roberta Villa, giornalista scientifica, precisando come si tratti sì di un problema di welfare e pratico, ma anche culturale. Per esempio, nella maggior parte dei casi sono le donne a occuparsi dei bambini che non vanno a scuola: per una questione culturale, perché guadagna meno ecc. “Ma non dovrebbe essere così” precisa. “Serve un capovolgimento mentale”.
Una società diversa e più inclusiva è stata forse – come ricorda ancora Villa –la vera chiave di svolta in quei Paesi governati da donne che hanno gestito meglio l’emergenza, come Finlandia, Nuova Zelanda, Germania, Hong Kong ecc. “Le leader donne hanno reagito meglio forse perché hanno una maggiore attenzione verso alcuni aspetti o perché tendono a usare una comunicazione più partecipata e senza quel linguaggio bellico che ha caratterizzato la comunicazione in Italia e in altri paesi governati da uomini. Ma anche perché guidano società più inclusive”.
La segregazione professionale
Un altro problema riguarda il salario: le donne impegnate in R&S (Ricerca e Sviluppo) guadagno in media il 17% in meno rispetto ai loro colleghi uomini in tutta l’UE-28, secondo i dati della Commissione europea. Anche per via della segregazione professionale, come ricorda Francesca Trippi, Medical advisor Sanofi Pasteur. “Il fenomeno per cui le donne molte volte per comodità, semplicità o perché la vita le mette di fronte a problemi, scelgono professioni più semplici e non hanno coraggio di andare avanti” spiega.
In effetti sempre secondo i dati della Commissione europea circa il 30% del divario retributivo di genere (in generale) è spiegato dalla sovra rappresentazione delle donne in settori relativamente poco remunerativi, come l’assistenza e l’istruzione. D’altra parte, la percentuale di dipendenti maschi è molto alta (oltre l’80%) nei settori meglio retribuiti, come le STEM.
Le disuguaglianze italiane nelle carriere scientifiche
La diversa retribuzioni tra uomini e donne è confermata anche da un recente lavoro condotto da Camilla Gaiaschi, sociologa del dipartimento di Scienze politiche e sociali alla Statale di Milano, dove collabora con il Centro di ricerca GENDERS, che ha indagato le determinanti dei differenziali di guadagno tra i medici in Italia.
L’analisi condotta in cinque ospedali della regione Lombardia ha mostrato che le donne guadagnano il 18% in meno degli uomini. Soprattutto per via della concentrazione delle donne nei ranghi inferiori della carriera, la loro minore propensione a lavorare come professionisti privati e la loro minore concentrazione nelle specialità chirurgiche. “Solo il solo il 16 % delle donne lavora in chirurgia e il 6% delle donne è primario, contro il 19% degli uomini” riferisce Gaiaschi, intervenuta anch’essa alla diretta. “Certo sta avvenendo una ‘femminilizzazione’ delle STEM – aggiunge – ma se riguarda solo i ‘piani bassi’ non ha molto senso. È anche vero che le donne si sono affacciate in questo settore da relativamente meno tempo rispetto agli uomini, ma questo non basta a giustificare la persistenza delle disuguaglianze che continuano a riproporsi a vari livelli e per diverse ragioni”.
I “pavimenti che incollano”
Insomma più che del famoso “tetto di cristallo” che impedisce alle donne di raggiungere posizioni apicali, secondo Gaiaschi si dovrebbe palare di “pavimenti che incollano”. I risultati dei suoi lavori – come altri in letteratura – indicano infatti che non esiste uno svantaggio di genere statisticamente significativo nel passaggio da vice a primario, ma solo nella transizione dal primo livello a vice. “I pavimenti che incollano sono quelli da cui si parte e gli ostacoli con il tempo si accumulano” conclude Gaiaschi. “Gli studi vanno in questa direzione: non c’è discriminazione nel diventare primario, perché chi arriva così in alto è super selezionato, ma nella fase precedente. Le disuguaglianze sono complesse e spesso invisibili e vano studiate bene”.