Donne e imprese, un binomio spesso vincente che, però, deve ancora vedersela con stereotipi e pregiudizi. Ma quali sono gli elementi che più frenano le donne nel fare impresa? Secondo l’Osservatorio Women in Business di SumUp e Istat, a cui hanno partecipato circa 2900 imprenditori di 4 diverse nazioni (Italia, Francia, Germania e UK) tra il 31 gennaio e il 9 febbraio 2023, a frenare le imprenditrici italiane è, soprattutto, la burocrazia (secondo il 56,4% degli intervistati). Stereotipi e pregiudizi di genere sembrano essere in calo (responsabili secondo il 13,5%), ma è necessario un cambio di mindset da parte delle imprenditrici affinché abbiano maggiore fiducia in loro stesse: 4 su 10 ritengono di avere più difficoltà a far crescere un’impresa rispetto agli uomini. Allo stesso tempo, il 38% delle donne a capo di aziende tende ad avere una forza lavoro composta tra il 75 e il 100% da professioniste, contribuendo a rafforzare l’empowerment femminile. E l’Italia, rispetto agli altri Paesi europei, a che punto è in tema di gender gap nel panorama imprenditoriale?
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L’Italia e il gender gap
In termini di parità di genere in campo imprenditoriale, l’Italia è ancora un passo indietro rispetto agli altri Paesi europei. Secondo i dati di Unioncamere, a fine settembre 2022 le aziende femminili erano più di 1 milione 342mila, rappresentando il 22,18% dell’imprenditoria italiana, mentre negli altri Paesi dell’UE la percentuale media è intorno al 32%. E a confermare uno scenario imprenditoriale europeo non sempre bilanciato tra generi è anche l’Osservatorio Women in Business condotto da SumUp, che rileva le motivazioni che spingono le imprenditrici italiane ad avviare un’attività: il desiderio di fare impresa è responsabile nel 20,5% dei casi, ma anche la possibilità di essere creative (21%) fa la sua parte, mentre nelle altre nazioni sono la voglia di autonomia professionale (54,5% in Francia) e personale (work-life balance al 37,7% in UK) i principali fattori motivanti. Tuttavia, in Italia non mancano, appunto, le difficoltà, legate non solo alla burocrazia, ma anche alla gestione degli impegni familiari (21,9%), mentre in altri Paesi le problematiche si presentano in una fase più evoluta dell’impresa (per esempio durante la ricerca di personale qualificato – una sfida nel 41,4% dei casi per le imprenditrici in Germania) e nelle fasi di accesso al capitale (29,2% in Francia). D’altro canto, le imprenditrici italiane mostrano di avere obiettivi molto chiari: tra le priorità hanno la ricerca del work life balance (47,5%) e l’espansione della propria attività nel 44,8% dei casi, rispetto ad esempio al 20,1% delle inglesi.
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Cosa frena le imprenditrici italiane?
Dall’analisi condotta da SumUp, emerge un mindset non positivo da parte delle imprenditrici italiane: oltre a un evidente senso di inadeguatezza, il 13,5% indica stereotipi e pregiudizi di genere come un ostacolo alla propria affermazione e il 35,7% ammette di essere frenata dalla paura di fallire. Oltre 4 donne su 10 percepiscono di avere più difficoltà a far crescere un’impresa rispetto agli uomini. Una visione, questa, che altrove è percepita in misura minore (18% in Francia, 29,4% in UK, 29,5% in Germania) e che nel 54,8% dei casi non è condivisa dai colleghi imprenditori in Italia. Un cambio di mentalità che, guardando i dati, potrebbe essere già in corso: il 38% delle imprenditrici tende ad avere una forza lavoro composta tra il 75 e il 100% da donne, con l’obiettivo di contribuire all’empowerment femminile. Allo stesso tempo, sono considerati elementi di forza la personalità e il carattere, più rilevanti dell’esperienza e delle qualifiche professionali nelle scelte di assunzione. Si tratta di una tendenza presente in tutte le nazioni e più evidente in Germania, dove la personalità è l’elemento principale per l’82% degli imprenditori e delle imprenditrici intervistati mentre in Italia questo elemento è rilevante nel 61% dei casi, l’esperienza nel 55% e le qualifiche solo nel 27%. Quando ad assumere sono le donne, la rilevanza della personalità sale al 64%. Abbiamo chiesto a Vanesa Pelizza, ideatrice di “Piano C”, che crea percorsi di riprogettazione professionale gratuiti per le donne che faticano a realizzarsi dopo aver dato alla luce un figlio e per le aziende attente al gender gap, che cosa ne pensa dei risultati emersi dall’Osservatorio.
È d’accordo con il fatto che, secondo l’Osservatorio di SumUp, sia soprattutto la burocrazia a frenare le imprenditrici italiane e che queste abbiano più difficoltà a far crescere le proprie imprese rispetto agli uomini?
La burocrazia, di fatto, impatta tanto gli uomini quanto le donne, ed è sicuramente un “male” endemico che penalizza l’imprenditorialità in Italia ma forse è solo l’aspetto più superficiale, la punta dell’iceberg. Credo che a penalizzare le donne siano, nel profondo, molto di più gli stereotipi e i bias di genere. Per secoli, le donne non hanno potuto essere indipendenti finanziariamente, e ancora oggi in Italia, nonostante non ci siano impedimenti materiali, circa 4 donne su 10 non sono titolari di alcun conto corrente. Va da sé che le conoscenze e competenze in ambito economico e finanziario delle donne siano più basse di quelle degli uomini, o almeno è quello che il genere femminile pensa, innescando il più classico dei cortocircuiti: non ne capisco niente, non me ne occupo, quindi non ne so davvero niente. Questo ha un impatto anche sulla gestione del denaro: la propensione al rischio (quindi a investire e fare impresa) delle donne è più bassa di quella degli uomini.
Quali altri ostacoli ravvede in questa direzione?
L’accesso al credito rappresenta un altro degli ostacoli principali: le donne, in media, hanno a disposizione meno capitale per poter avviare l’attività e si scontrano con un maggiore rifiuto da parte degli istituti di credito. È necessario, infatti, implementare politiche che ne facilitino l’accesso e che incentivino gli investitori a sostenere le imprese femminili. Ritornando agli stereotipi di genere, le imprenditrici sono spesso vittime del “doppio standard”: devono fare due volte meglio degli uomini per venire giudicate, molto frequentemente, brave la metà. In ultimo, è noto che la società, da sempre, indica gli uomini come più portati per ruoli di potere mentre alle donne vengono attribuite qualità e capacità come accudimento, sensibilità ed empatia.
Anche per lei è stato così?
Nel mio primo percorso imprenditoriale, legato al mondo della ristorazione, oltre alle già citate difficoltà culturali, l’ostacolo principale è stata la complessa conciliazione tra vita professionale e vita privata. Ma non mi sono persa d’animo e ho deciso di riprogettarmi professionalmente, facendo tesoro di quello che avevo imparato fino a quel momento. E proprio sperimentando in prima persona come donna queste problematiche ho sposato l’urgenza di un progetto come Piano C.
Come è riuscita ad affermarsi nel mercato con il suo progetto?
Piano C è nato nel 2012 per supportare le donne nella loro vita professionale. In questo lasso di tempo ha subito diverse trasformazioni, com’è normale che sia. Ho incrociato Piano C come utente nel 2017 e da quel momento, un passo alla volta, attraverso sfide, volontà, concretezza, passione, e lavorando insieme a un gruppo di professioniste coinvolte e che sposano la mission quanto me, abbiamo continuato a dare vita ad un progetto necessario per coloro che molto spesso si trovano a dover fare delle scelte a somma zero.
Di che cosa si occupa Piano C nello specifico?
Piano C oggi si occupa di riprogettazione professionale, formazione ed empowerment femminile. Incentiviamo e sosteniamo l’imprenditorialità femminile mettendo a disposizione delle donne una serie di strumenti concreti per valorizzare la propria professionalità, centrare i propri obiettivi, diventare protagoniste del proprio cambiamento. Come ogni impresa del terzo settore, la sostenibilità è un esercizio quotidiano: lavoriamo a 360 gradi tramite progettazioni e collaborazioni con le aziende che vogliono supportare il talento femminile attraverso la formazione gratuita per donne disoccupate o male occupate. Per sensibilizzare le aziende su tematiche legate alla parità di genere eroghiamo consulenze ad hoc per i loro management, percorsi di formazione per i dipendenti, workshop sul benessere organizzativo e campagne di advocacy. Riusciamo a essere competenti e credibili verso i nostri interlocutori (enti pubblici e imprese) proprio perché incontriamo e ascoltiamo le donne in prima persona, abbiamo raccolto le loro storie e sappiamo di che cosa hanno bisogno per realizzarsi nel mercato del lavoro. È una fatica ma ne vale la pena.