Per la rubrica Unstoppable Women intervista a Susanna Martucci, imprenditrice veneta a capo di Alisea e vincitrice del Premio GammaDonna 2023. «Qui ho messo insieme gli scarti e le “scartate”. L’innovazione è nel mio DNA e deve migliorare la vita delle persone»
Bucce di pomodoro che diventano candele, alettoni di elicotteri trasformati in agende, scarti di elettrodi convertiti in tappi per bottiglie. La “magia” di Susanna Martucci va avanti da 30 anni. Dalla lavorazione di materiali industriali inutilizzati, grazie all’innovazione nei processi produttivi e all’applicazione di tecnologie all’avanguardia, l’imprenditrice bolognese progetta e produce oggetti di design e di uso quotidiano. Un mix di lungimiranza, talento e competenze che le è valso il premio GammaDonna, l’iniziativa che promuove l’imprenditoria femminile innovativa giunta alla 15esima edizione. Un sistema industriale rigenerativo che fa rete tra imprese è l’idea alla base delle innovazioni che Susanna ha sviluppato negli ultimi 3 decenni, all’insegna del riciclo, del riuso e dell’economia circolare. Alla guida di Alisea, impresa benefit che, dal 1994, progetta e produce oggetti di design, materiali per l’edilizia e risorse per la moda sostenibile dagli scarti industriali, Susanna è alla continua ricerca di nuovi stimoli e prospettive. E dal 2013, quando ha conosciuto meglio la polvere di grafite, ha dato vita a una serie di brevetti per approdare, con le sue innovazioni, nel design store del Moma di New York. Abbiamo intercettato questa pioniera del riuso per approfondire meglio la sua storia e farci raccontare qualche aneddoto sul suo percorso che l’ha portata sino in America.
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Susanna, come nasce la tua passione per il riciclo?
In realtà da un’esigenza: non far fallire la mia azienda. Era il 1994 e lavoravo nel campo del design. In quell’anno iniziarono ad arrivare sul mercato una serie prodotti cinesi che erano copie di quelli italiani e costavano un quarto rispetto al prezzo del nostro mercato. Il boom fu inaspettato e iniziai a chiedermi che cosa potevo fare per evitare il tracollo. Il percorso era decisamente in salita, e su 4 volte che presentavamo i nostri prodotti a possibili acquirenti, riuscivamo a venderli una sola volta. A un certo punto mi è venuta un’idea: spostare l’attenzione dalla funzionalità al materiale con il quale quegli oggetti erano fatti e al valore che avrebbero potuto comunicare. In quel momento ho pensato al riutilizzo e al reimpiego di materiali di scarto, combinando, ad esempio, materia plastica che veniva riciclata.
Poi che cosa è successo?
Dal momento in cui ho messo in atto questo cambio di mindset, potevo trasformare, ad esempio, un catarifrangente in un prodotto unico, come una penna, e al cliente potevo raccontare che fine faceva quell’oggetto, da che cosa era composto, dove era stato preso e come avrebbe potuto essere reimpiegato. Nel ’97, poi, arrivarono le prime normative sul recupero del materiale: la prima fu il decreto Ronchi, che dava attuazione alle direttive europee sui rifiuti urbani, sui rifiuti pericolosi e sugli imballaggi, poi si è iniziato a parlare di raccolta differenziata e di formazione delle persone sul tema.
Quando e perchè sei arrivata in America?
In America andavo a caccia di clienti a cui chiedere scarti. In quel periodo ho iniziato a pensare al design non più soltanto come qualcosa che si presenta di bell’aspetto ed è funzionale ma anche come qualcosa in grado di riprogettare oggetti comuni che siano durevoli e unici. Sono partita dalla grafite di scarto per fare un oggetto che prima non c’era, bello, e che mi proiettasse nel futuro, che fosse in grado di raccontare la storia di chi lo ha lavorato. Dentro a quell’oggetto c’era tutta l’italianità: la creatività, l’innovazione, la vision di un rifiuto che diventa valore. Allora fu una bella scommessa, oggi ce l’abbiamo fatta. Con determinazione e volontà.
Quali sono alcuni dei prodotti di punta?
C’è G_pwdr® Technology, un sistema brevettato per la tintura dei tessuti che permette di risparmiare il 90% di acqua e il 47% di energia, e Perpetua, una matita che consuma scarti senza produrne di nuovi durante il ciclo produttivo e non presuppone l’utilizzo di legno, vernici o collanti, oltre ad avere una vita di 21 volte più lunga rispetto alle matite tradizionali. Quest’ultima si è aggiudicata la menzione d’onore “Compasso d’Oro” nel 2016, e, dal 2019, occupa uno spazio nel Design Store del Moma di New York.
Quali sono, secondo te, le chiavi del tuo successo?
Quando proponi un prodotto iconico, durevole, e che si fa portatore di valori non è difficile conquistare altri territori. Credo che questo aspetto sia quello che ha fatto la differenza. Durante la mia carriera ho conosciuto tanta gente visionaria che, purtroppo, non è riuscita a sopravvivere a questo ultimo decennio, e altri che hanno recuperato in corsa. Per quanto riguarda la mia esperienza, devo ammettere che non è stato semplice, in quegli anni, dare una nuova vita a ciò che, altrimenti, sarebbe finito in discarica. Ma quello che a quel tempo mi è costato molto lavoro e fatica, oggi rappresenta un vantaggio competitivo rispetto ad altre realtà.
Che cosa porti nel tuo attuale lavoro dalle tue esperienze professionali passate?
Ho lavorato per 12 anni con la casa editrice Mondadori, come commerciale. Questo lavoro, in quel tempo, era molto professionalizzato: si spaziava dallo studio della psicologia umana all’economia. Per vendere un prodotto a qualcuno, devi sapere quello di cui hanno bisogno, e la mia esperienza in Mondadori è stata molto interessante perché mi ha aiutato a capire che, anzitutto, si deve partire dal bisogno di soddisfare una necessità, e, sulla base di questo concetto, andare a caccia di clienti.
Come è, poi, nata la tua azienda?
Nel 1994 mi sono scelta un team al fianco del quale lavorare a nuovi prodotti, costantemente in evoluzione. Nella mia squadra ci sono per la maggior parte donne, e non è un caso. Ritengo che abbiano una maggiore propensione motivazionale rispetto agli uomini oltre, chiaramente, alle competenze, che prescindono dal genere. Ho deciso di costituire un team che avesse al suo interno proprio quelle donne che si sentono un po’ abbandonate dalla società perché si trovano magari in una certa fascia di età considerata difficile per trovare un lavoro. Oggi devo dire che sono fiera di loro e della mia realtà che ha messo insieme gli “scarti” e le “scartate”.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Possiamo solo crescere, ampliare il nostro raggio di partnership e collaborazioni che già oggi spazia su realtà che producono diversi materiali: dalle vernici ad acqua per il parquet, al legno, all’alluminio, sia per interni che per esterni, ecc… Anche in termini di fatturato non possiamo che crescere, guardando a come innovare e migliorare ancora di più la filiera. Al centro ci deve sempre essere il rispetto per il cliente e per le persone e credo che oggi le PMI e le startup, che nel frattempo si sono specializzate sul tema del riciclo, possano davvero fare la differenza da tanti punti di vista.
Cosa ha significato, per te, la vittoria del premio Gammadonna?
È stato un onore e un riconoscimento. Io mi sono sempre sentita un po’ controcorrente, ho sempre voluto innovare, ci ho sempre provato senza restare chiusa in confini netti. La scelta di puntare sull’innovazione come fattore di sviluppo d’impresa, prima ancora di essere un’esigenza commerciale, per me è stata un’esigenza personale, la sentivo nel mio DNA. Innovare non è solo indispensabile ma anche gratificante, anche sul piano sociale. Si tratta di un contributo fondamentale per il miglioramento della vita delle persone. E spesso le imprenditrici fanno più fatica rispetto ai colleghi di genere maschile ad affermarsi: devono superare le aspettative legate alle consuetudini. In alcuni casi uscire dalla comfort zone è necessario per raggiungere quella che io definisco la ‘happy zone’.