Un progetto nato con l’idea di creare un ponte tra l’Europa e il mondo indigeno a supporto dell’empowerment femminile che inizia da un piccolo villaggio indiano, Kaziranga Haat. Qui 100 donne indigene di 10 cooperative indiane lavorano per costruire la propria idea di impresa, in particolare nei settori della moda e del tessile. L’iniziativa si chiama Smily Academy, e ha preso vita da un’idea di Claudia Laricchia e Matteo Salerno lanciata durante la COP28 a Dubai. Recentemente ha chiuso una serie di partnership con Women 7, GammaDonna, B Women Italy, Way2Global, Dot Academy e Goooders puntando sempre più in alto, verso la creazione di un modello di sviluppo rigenerativo insieme a importanti realtà italiane e internazionali, con l’obiettivo di superare una serie di barriere culturali e di genere. Abbiamo intercettato Claudia Laricchia, che non è soltanto l’ideatrice del progetto ma è anche un’accademica, presidente Nazionale della Commissione Ambiente e Innovazione della Federazione Italiana per i Diritti Umani, climate leader per “The Climate Reality Project” di Al Gore, coordinatrice nazionale del Patto delle Donne per il Clima e l’Ambiente degli Stati Generali delle Donne. Da diversi anni compone il mosaico della nostra rubrica dedicata alle Unstoppable Women.
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Claudia, come è nata Smily Academy?
Io e Matteo Salerno abbiamo iniziato a pensare a questa iniziativa diversi anni fa. Nel corso del tempo, grazie al supporto di Rituraj Phukan, Jadav Molai Payeng e Munmuni Payeng, co-founder del progetto, abbiamo realizzato quella che oggi è Smily Academy, un programma della ONG Indigenous People’s Climate Justice Forum che ha l’obiettivo di unire il mondo occidentale e quello degli indigeni intorno a valori condivisi come quelli di un futuro sostenibile e di co-progettazione di modelli rigenerativi di sviluppo. È stato molto faticoso realizzare la prima accademia indigena di eco-business, di fatto questo è il primo acceleratore di impatto ed educazione di questo tipo che punta all’azione. A 5 anni e pochi giorni dal collasso climatico abbiamo voluto tentare un progetto radicale con le popolazioni indigene, fuori dai contesti a cui siamo abituati, con studi nella giungla, in mezzo ai fiumi, laddove la biodiversità è a rischio. Le popolazioni indigene, che vivono in media con 5 dollari al giorno, detengono e proteggono l’85% della biodiversità.
Come si è sviluppato il progetto?
Siamo voluti partire da un concetto abbastanza semplice da spiegare ma molto difficile da mettere a terra basato su una mentalità rigenerativa e uno stile di vita che, al contrario delle nostre consuetudini, non vede la natura in funzione dell’uomo ma viceversa. Qui l’innovazione si basa sulla ricerca trasformativa e con la scuola di eco-impresa, dal 20 al 26 marzo, ad Assam, 30 partecipanti da 4 continenti hanno messo le basi per la realizzazione di 20 progettualità di eco-impresa giovanile innovativa, supportati da più di 30 partner. Tutto questo è stato possibile grazie all’importante supporto ricevuto da parte del prof. Stefano Denicolai. Ora lavoriamo sulla formazione e poi sull’accelerazione delle eco-imprese. Oltre agli alberi piantiamo una fase nuova della conoscenza, per questo questa esperienza si basa sulle 4 “S”: riconnessione con se stessi (Soul); con gli altri (Society); con il Pianeta (Soil) e con la gioia di vivere e condividere (Smile: scale up and celebration).
Ad oggi quali risultati avete ottenuto?
I progetti di impresa sviluppati in 27 settori, principalmente come B2B, stanno lavorando a un processo di innovazione imprenditoriale e sociale. I nostri KPI e misuratori di impatto devono soddisfare 4 dimensioni di sostenibilità: economica, sociale e ambientale e umana. Quest’ultima è legata al mindset, alla presa di coscienza che è da queste zone che si deve iniziare a ripensare il futuro, con l’intento di creare in pochi anni una cerniera tra tra Oriente e Occidente per incentivare e supportare sia le organizzazioni occidentali che 400 milioni di persone indigene in 90 Paesi rappresentati dalla ONG. Questo vaso comunicante penso che sia un segno importante da lasciare alle nuove generazioni, che sono molto più sensibili al tema ma che, abituate al mondo occidentale, ancora non hanno avuto modo di scoprire quello che potrebbe accadere se fare impresa partisse proprio da questi territori rimasti a lungo dimenticati.
Che cosa ti ha spinto a partire proprio dall’India?
Con Rituraj Phukan, Head of Biodiversity di Al Gore’s Climate Reality Project India, siamo amici da 10 anni. Lui vive in India e lo ho sostenuto durante una spedizione in Antartide. In quel momento ho pensato: “Perché non sostenerlo a casa sua?”. Così è nata l’idea di iniziare il progetto dall’India ma la volontà è quella di estenderlo anche a tante altre zone del mondo come il Messico, la Foresta Amazzonica, l’Indonesia. L’india è il kickoff di un progetto internazionale che è stato possibile avviare con le 97 comunità di indigeni perché Rituraj Phukan, Jadav Molai Payeng (meglio conosciuto come “The Forest Man”) e sua figlia, Munmuni Payeng, ci hanno aperto le porte di casa dimostrandoci sin da subito un amore per la sacralità e per la vita. Le comunità indigene nutrono una grandissima fiducia e attenzione nel progetto, ma hanno una storia dalla quale non si deve prescindere e che va fortemente rispettata.
Hai mai assistito a episodi in cui alcune persone hanno disprezzato il progetto?
Devo dire pochissime volte, ne ricordo in particolare un paio. È capitato che una giovane donna indigena mi abbia minacciata. Quel gesto l’ho, però, interpretato come un segnale di ribellione: spesso il cambiamento, almeno in fase iniziale, viene rigettato, ma se questo accade vuol dire che stai facendo la cosa giusta. Io ho voluto fare questa accademia completamente gratuita a condizione che queste popolazioni compartecipassero in maniera attiva, mai da “dietro le quinte”. Un altro episodio che ricordo, e che è molto significativo, accadde quando una giovane indigena mi chiese: «Ma tu sei la nuova sovranità bianca?». Quella domanda così diretta e così tagliente racconta un percorso storico profondissimo.
Queste comunità su che cosa stanno lavorando attualmente?
La maggior parte si occupa della produzione di tessuti, sciarpe, vestiti e tessile fino al tè, in moltissima varietà. Questi progetti di empowerment e di cooperazione internazionale puntano anche all’alfabetizzazione digitale, per non lasciare indietro un tema centrale di cui hanno bisogno anche le tribù. Puntiamo anche a diffondere la cultura indigena. Con “The Forest Man” abbiamo piantato una foresta rispettando la conservazione del suolo e delle sementi, sulla base di uno studio che queste popolazioni conoscono alla perfezione. Pensiamo se fossimo in grado di fare la stessa cosa in Occidente: potremmo tornare a respirare aria pulita. È anche un tema di salute mentale e fisica dell’essere umano, verso un approccio a un nuovo umanesimo alla natura.
Cosa c’è nel futuro di Smily?
Anzitutto abbiamo avviato un crowdfunding su Gofundme che è anche stato inserito sulla pagina dedicata alla Giornata Mondiale della Terra, dove sono riunite le raccolte fondi per la tutela e la salvaguardia dell’ambiente. Oltre, poi, ad ampliare il progetto verso nuovi territori, vogliamo creare un’ampia finestra per l’empowerment delle nuove generazioni che mette al centro i temi della giustizia climatica e sociale, in un rapporto di interdipendenza. E per adesso siamo sulla strada giusta.