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Il primo Comune che ha messo in fila tutte le sue azioni pro-parità e le ha fatte misurare e valutare è stato, a sorpresa, un piccolo paese in provincia di Arezzo, Loro Ciuffenna, supergiù seimila abitanti: la sua amministrazione ha agito in modo tanto equo e giusto da essere riuscita a strappare, un anno fa e prima assoluta in Italia, la Certificazione della parità di genere, il riconoscimento formale che viene assegnato ai luoghi di lavoro che hanno costruito una parità vera, concreta, effettiva tra uomini e donne. 

Milano e Roma, campioni big di parità 

Freschi di certificazione sono, invece, oggi i due pesi massimi Roma e Milano, arrivati quasi simultaneamente al traguardo: la capitale politica lo ha fatto grazie a un’occupazione femminile nel suo organico che supera il 72%, al 34% di donne nei ruoli dirigenziali e a nessun divario retributivo tra uomini e donne, insieme al progetto di riformare i bandi di concorso per garantire selezioni e assunzioni più inclusive, di facilitare il bilanciamento tra vita privata e vita professionale dei collaboratori e di esportare il modello in tutte le società partecipate; anche la capitale economica ha nell’organico comunale un’occupazione femminile superiore al 70%, 10 punti sopra la media nazionale e ha dichiarato che la certificazione di parità di genere è solo l’inizio di un percorso per il quale vuole arrivare molto lontano, invitando, peraltro le imprese – parecchie già sulla buona strada – a fare altrettanto. 

E mentre si tiene il conto delle aziende già certificate – a oggi sono stati rilasciati 5300 attestati, stando ai dati del Dipartimento Pari Opportunità, ma secondo gli enti certificatori sono molti di più -, anche le università imboccano la via del bollino di parità: la prima in assoluto è stata Ca’ Foscari Venezia nel febbraio 2024, l’ultima in ordine di tempo l’Università Milano Bicocca, appena poche settimane fa. 

Che cos’è esattamente la Certificazione della parità di genere?

Si tratta di un riconoscimento formale a cui possono ambire imprese e organizzazioni di qualunque dimensione e che viene attribuito loro da enti accreditati indipendenti se effettivamente risultano inclusive e rispettose della parità di genere, sulla base di precise aree, come indicato dalla legge che l’ha istituita, la 162/2021, approvata all’unanimità dal Parlamento. Le organizzazioni sono chiamate a presentare un rapporto con una densissima griglia di dati per dimostrare di avere adottato, dice la legge, “politiche e misure concrete per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità”.

Insomma, la certificazione di parità premia le organizzazioni che hanno fatto un percorso ragionato, strutturato e misurato sulla parità tra donne e uomini: tra i dati da presentare sulla base di specifici parametri prestabiliti devono figurare, per esempio, quelli che riguardano gli inquadramenti contrattuali, le funzioni svolte e le retribuzioni iniziali sulla base del genere per dimostrare che non ci sono disparità, i processi di selezione in fase di assunzione e i criteri adottati per le progressioni di carriera e la formazione manageriale – sempre nell’ottica di superare gli ostacoli che ancora ingabbiano le carriere femminili -, nonché tutti i processi messi in campo per favorire l’integrazione tra la dimensione professionale e quella di vita, come le politiche di welfare e i congedi parentali.

Quali sono i passaggi verso il bollino di parità?

Tendenzialmente, l’organizzazione effettua un’analisi dei processi interni per valutare la propria adeguatezza in fatto di parità di genere. Quindi, mette in atto tutte le misure necessarie per adeguarsi, nel caso fosse carente, agli standard previsti dall’ente certificatore, il quale, successivamente, avvia un’analisi. Se questa ha esito positivo, viene rilasciata la certificazione. L’attestato ha durata limitata, per cui l’organizzazione è tenuta a rinnovarlo e, perciò, a mantenere gli standard nel tempo, se non a migliorarli.  

Quali sono i vantaggi per le organizzazioni e per il Paese?

La legge ha istituito la certificazione per spingere imprese e amministrazioni pubbliche, per le quali sono previsti incentivi economici, a investire nel talento e nel lavoro femminile, con la convinzione che farlo sia conveniente per le singole organizzazioni e per il Paese. Aumento della produttività, maggiore predisposizione all’innovazione, miglioramento della reputazione e della capacità di attrarre talenti, riduzione delle controversie legali sono alcuni dei risultati favoriti, nelle organizzazioni, da ambienti lavorativi equi, aperti, dove tutte le persone hanno le medesime opportunità indipendentemente dal genere. Ma dovrebbe essere anche l’intero Paese a beneficiarne. Secondo il rapporto 2024 dell’Osservatorio sul Women’s Empowerment realizzato dal Gruppo The European House-Ambrosetti, chiudere il gender pay gap e raggiungere uguali tassi di occupazione tra uomini e donne nei Paesi del G20 più la Spagna significherebbe generare un impatto di 11 trilioni di dollari e un aumento del PIL del 12,3%.

Sono due, secondo il centro di ricerca, le priorità cruciali, concretizzando le quali si possono produrre effetti straordinariamente positivi, sia per le donne che per la società tutta: si tratta di “aumentare il tasso di occupazione femminile, facendo della partecipazione al mercato del lavoro un motore chiave per l’empowerment economico e sociale individuale, oltre che un elemento cruciale per uno sviluppo sostenibile e inclusivo e di migliorare la qualità delle condizioni di lavoro per le donne già occupate, partendo dalla tipologia di contratto, dai livelli retributivi e da una maggiore flessibilità, orientata a un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata e al benessere delle lavoratrici”. L’Italia, sostiene il Rapporto, ha ancora parecchia strada da fare.