In collaborazione con Martina Righetti
You’ve got your mother in a whirl
She’s not sure if you’re a boy or a girl
David Bowie, Rebel Rebel
Queer = strano, insolito, prima di tutto. Ma poi anche tutto il resto.
Parola controversa, riciclata da un repertorio di insulti, è poi diventata baluardo dell’inclusione e della fluidità, specie in relazione all’identità di genere, ma non solo. Essere queer, o pensare queer, può significare non solo appartenere alla comunità LGBTQIA+, ma anche abbracciare un approccio critico che sfida la normatività e le strutture logiche e sociali dominanti.
Non è solo una parola, dunque, è un simbolo del pensiero critico, che esplora orizzonti ben più ampi del linguaggio di genere. La sua storia evidenzia come il linguaggio sia non solo un effetto, ma anche una causa delle trasformazioni sociali. In italiano, e anche in altre lingue, queer è entrata tal quale, mostrando la capacità di alcune parole di superare i confini grazie al loro peso culturale.
Non siamo tenuti a usarla se non la sappiamo maneggiare, ma possiamo evitare di esserne spaventati. È una parola rispettosa (ricordiamo che la parola scelta da Treccani per il 2024, per la sua attualità e rilevanza sociale, è proprio rispetto, che noi stessi esplorammo tempo fa in queste colonne), perché ci invita a domandarci di più chi siamo come esseri umani, prima che su quale casella (F/M?) mettere la croce nei moduli preistorici delle amministrazioni pubbliche.
Una parola, allora, che parte, sì, da quel famoso LGBTQ…, acronimo in continua crescita, ma che subito ci spalanca il pensiero a prospettive più ampie, che superano le categorizzazioni binarie di tradizione aristotelica, quelle del “terzo escluso” (o è così o non è così), e includono forme ibride o non disposte a farsi definire.
La scena che segue – che è avvenuta o avverrà in un giorno qualsiasi in un ufficio qualsiasi – ci porta infatti dentro la parola queer, per poi aprirci la strada a direzioni diverse, magari anche un po’ strane, appunto.
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Lucia continua a fissare i grafici del progetto inviato al cliente. Quel click, maledizione. Fosse un cartoon, darebbe di gomma per cancellare la mano che ha inviato la mail. Il grafico a pagina 54, in basso a destra, un disastro. Raf, l’ultimo acquisto in agenzia, forse aveva bevuto una birra di troppo la sera prima. O aveva fatto tardi con Andrea, la sua ragazza (o il suo ragazzo?). Lucia non ci capisce niente della vita di Raf, e chi lo sa se pure Raf ci capisce qualcosa.
In un attimo le compare davanti, con il sorriso sardonico e il ciuffo scolpito, tipo David Bowie in Rebel Rebel. Inquadrandolo, Lucia ha un flash: son cinquant’anni da quando il Duca Bianco cantava «Hai messo tua madre nei guai, non è sicura se sei un maschio o una femmina», esibendo outfit, acconciatura e movenze decisamente queer. E le parole queer, Raf ed errore, nello stesso pensiero, non le migliorano l’umore. Sta decidendo se cazziarlo all’istante o attendere 30 secondi.
Raf – Lucia buondì! Mammamiaaa che faccia, dai che è il venerdì casual, portiamocelo pure un po’ dentro, oltre che nell’outfit!Ti-Gi-Ai-Ef!
Lucia – Che?
R – TGIF, Thanks God It’s Friday, c’mon! Ok Lucia, ho capito, non è giornata. Dimmi quello che mi devi dire, che poi ho promesso a Walter che l’avrei aiutato a fare una cosa. Di lavoro, eh.
L – Raf, hai presente il progetto che abbiamo inviato al cliente lunedì mattina? Quello che ti avevo chiesto di integrare e rivedere bene. Molto bene, per non sbagliare. Hai presente?
R – Come no? Quindi?
L – Quindi non andava bene per niente! Guarda il grafico a pag. 54: è sbagliato. SBAGLIATO! Hai scritto che il prototipo sarà realizzato in 10 giorni, mentre saranno 20. Ma più grave è che dici che useremo un brevetto che non abbiamo! Non hai indicato la procedura corretta!
R – Mmmhhh, strano. Però se dici che è sbagliato, avrò sbagliato!
L – Hai sbagliato, non “avrai”, è sicuro!
R – Ok, può essere! Però questo potrebbe essere proprio un bell’esempio di errore queer!
L – Errore che?
R – Errore queer. Sai niente di questa parola?
L – So più di quello che pensi, Raf. Ho anche letto il libro di Michela Murgia, God Save the Queer, mi piaceva l’idea che parlasse di un catechismo femminista. Poi ne parlano tutti, della fluidità di genere, del non pensare in modo binario, del superare le categorie mentali legate all’identità sessuale. O di genere, o come si dice.
R – Piano. L’identità sessuale è definita dalla biologia, e sta nei nostri genitali. L’identità di genere è cosa tutta diversa. Come dice la filosofa Judith Butler, riguarda le norme che ci vengono trasmesse dai genitori, dalla società, dai media. Norme che prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere uomini o donne. Noi dobbiamo continuamente negoziare con esse. Alcuni di noi sono attaccati a queste norme, le incarnano con ardore; altri le rifiutano. Alcuni le detestano, ma si adeguano. Altri navigano nell’ambiguità. Altri non si conformano alle consuetudini sull’argomento, non dichiarano la propria identità o si stanno ancora interrogando sul tema: le persone queer, appunto.
1) Queer: tanti significati
L – Quindi queer è una persona che non ha risposte precise sulla propria sessualità? Pensavo ci fosse dentro qualcosa di offensivo.
R – In origine, in effetti, c’era l’intenzione dell’insulto. Anche se il dizionario Oxford dà come prima definizione semplicemente “strano, insolito”, fino al ’600 la parola si usava in inglese proprio per offendere chi appariva, appunto, un po’ strano, e proprio in quel senso. E dall’800 si usava per insultare i gay. Ma con le battaglie per i diritti civili condotte in tutto il mondo nella seconda metà del ’900, è entrata nel dibattito pubblico e nelle scienze sociali, specie negli studi sulla sessualità, ed è diventata una parola super inclusiva.
Tecnicamente queer è un “iperonimo”, un termine ombrello che definisce un insieme molto esteso di suoi “iponimi”. Come verdura, che è iperonimo di patata, pomodoro, peperone. Queer si può usare per indicare chiunque non voglia avere un’etichetta. Per esempio, secondo Treccani, una famiglia queer è una comunità di persone che, indipendentemente dal genere o dall’orientamento sessuale, vivono insieme per scelta e sono legate da qualche affinità, ideali o sentimentali, o dalla condivisione di certe attività.
L – Ma l’etimo?
R – Sembra connesso con l’avverbio tedesco quer, che significa “di traverso”, “diagonalmente”. Simile al latino torquēre = torcere. Ma ci piace di più un’altra ipotesi, sempre dal latino, che si collega alla lettera Q, iniziale di quaestio: la domanda, più creativa della risposta; il dubbio, più vitale della certezza. Tra l’altro, parte dello stesso movimento LGBTQIAPK critica l’inclusione della parola queer nel famoso acronimo proprio per la sua origine offensiva. Alcuni preferiscono legare alla Q proprio la parola questioning. Che rappresenta chiunque, alla domanda “Qual è la mia identità di genere?”, non si affretti per trovare una risposta univoca e definitiva.
L – Mi stai ubriacando, Raf. Faccio fatica a interiorizzare i concetti legati a tutte queste nuove etichette. Avrei un sacco di domande su cosa significhino, come usarle, quanto siano utili, quanto siano inclusive o, al contrario, divisive.
R – Beeeneee! Le domande al posto delle certezze! Starai mica diventando un po’ queer anche tu?
L – Ecco, questa mi mancava. Ma senti, tutta questa dissertazione che c’entra con il tuo errore? Vedo che ne sai di queerness, ma ora dobbiamo aggiustare il disastro che hai combinato con quel grafico nel progetto.
2) E l’errore queer?
R – Ok, ora sei pronta, possiamo arrivarci 🙂 Allora: negli ultimi anni ha preso piede la tendenza a definire queer un errore intelligente: è quello che nasce dal tentativo di innovare, di rompere le abitudini, di esplorare ciò che è insolito. Quello che ci mostra una prospettiva diversa, per capire se seguirla o meno nel futuro. L’errore queer ci spinge a condividere la lezione dell’insuccesso.
Pensiamo al cavaliere errante della letteratura medievale. L’aggettivo “errante” (che poi è un participio = che viaggia) indica come quel cavaliere vagabondava per vasti territori per cercare avventure, o per dimostrare il proprio valore. Oggi, tra l’altro, “cavaliere” non è più solo maschile singolare, è anche femminile plurale (il singolare è cavaliera, come infermiera, cassiera, cancelliera, parola di Crusca). Quindi molte persone – uomini, donne, queer… – per fortuna possono errare, portando in ciò che fanno esperienza e insieme curiosità, capacità e passione per il nuovo.
Ed “errante” non è solo chi viaggia, ma anche chi sbaglia, chi commette errori, perché osa, sperimenta con responsabilità e coraggio. Ma poi non nasconde l’errore, anzi, ne fa occasione di apprendimento per sé e per la propria comunità.
L – Mi vuoi convincere che errare non solo è umano, è anche buono e giusto?
R – In parte, sì, perché permette di scoprire prospettive nuove e utili. Ecco perché alcuni parlano di errore felice. Hai presente: la penicillina, la radiografia, persino l’America.
L – Sì, sì, adesso mi sciorinerai le famose citazioni su quanto son belli gli errori: Oscar Wilde, Albert Einstein, Michael Jordan, Bertolt Brecht… Chissà com’è, poi, ’sti sapientoni tanto orgogliosi dei loro errori, e se sbaglio io invece mi tolgono la pelle. Comunque, tornando al tuo errore, lì che cosa ci sarebbe di felice?
R – Beh, magari un errore di procedura, come questo, non ci fa interrogare proprio sul modo di procedere? Emerge qualche perplessità su come costruiamo i progetti? Non sarebbe meglio, per esempio, se le parti tecniche uscissero dagli ingegneri?
L – Va beh, domani ci ragioniamo. Ora corriamo a sistemare quel grafico. Comunque prendo atto che, partendo dalla Q di questioning, grazie al tuo volo pindarico sull’errore siamo arrivati a parlare di domande.
3) Il potere delle domande
R – Beh, un volo neanche troppo pindarico. Per uscire dalla logica binaria, maschi/femmine o anche giusto/sbagliato, bisogna porsi buone domande. Ricorderai che la canzone più famosa del secolo scorso, composta da un ragazzo di 20 anni, Blowing in the wind, è fatta da nove domande sulla vita, e la risposta è lasciata, appunto, a soffiare nel vento. Le domande sono salvifiche, aprono alla dimensione creativa del dubbio, sia nel dialogo esteriore sia in quello interiore. Sarebbe utile per chiunque allenarsi a un buon uso delle domande. E non parlo di contenuti, intendo le strutture linguistiche che possono accendere il pensiero e la conversazione, scardinando l’univocità degli stereotipi. Ce n’è un repertorio ampio: domande vere, domande retoriche, domande maieutiche, domande chiuse o aperte, dirette o indirette, domande guidanti o suggestive, domande a illusione di alternative, e via.
L – Beh, in effetti ricordo un professore, in un master, che iniziò un seminario di tre giorni davanti a 300 allievi dicendo solo due parole: «Salve, ditemi». E poi zitto. Silenzio. Lunghissimo. Sguardi sconcertati. Poi rumorìo in sala (“ti abbiamo già pagato una biglietto importante, tesoro – pensavamo credo tutti – sarebbe carino iniziassi tu a dirci qualcosa”). Lui sempre zitto. Dopo un po’ aggiunse: «Ok, prendetevi 5 minuti, scrivete le domande che volete farmi, poi partiamo con il Q&A». Messaggio ricevuto: siete tutti professionisti, volete che vi proietti le slide con l’abc? Ditemi che cosa v’interessa, e cercherò di rispondervi. Partì una gara per la domanda più acuta, specifica e profonda. E quello gestì 20 ore di seminario solo dialogando con l’aula. Niente slide, niente video, niente role playing. Certo, ci vuole coraggio, padronanza dell’argomento, ma anche apertura a soluzioni nuove. Perché non è che tac-tac, fosse tutto limpido e convincente, su alcuni temi il dibattito restò aperto, io sono ancora qui che ci penso. Forse anche questo è queer?
R – Forse la vita è queer, Lucia.