I colori del Playdate, la buffa e curiosa consolina di Panic sono proprio quelli dell’estate. Gli ingombri permettono di infilarla praticamente ovunque: nel marsupio, in tasca, persino nel costume (basta ricordarsi di levarla prima di fare un tuffo) e i suoi giochini sono l’ideale per riprendere fiato tra una nuotata e una scorpacciata di gelato.
Playdate, console per pochi che piace a molti?
A due anni dal lancio (e a cinque dall’annuncio) che ha elevato Panic da “semplice” software house (suoi l’ottimo Untitled Goose Game, come pure Firewatch) a produttrice di hardware (proprio come Sony, Microsoft e Nintendo), l’eclettica e forse un po’ hipster console con la manovella (l’estetica hipster è fortunatamente passata di moda, Playdate no) ha appena tagliato il traguardo delle 150mila unità vendute.
Un traguardo piccino picciò, se comparato coi colossi che dominano il mercato, ma importante per un sistema che non ha mai voluto competere in Serie A, preferendo giocare una partitella tutta sua. Un traguardo, soprattutto, che ha permesso alle startup e agli sviluppatori solitari che hanno pubblicato i loro titoli di portare a casa ricavi netti per un totale di 544.290 dollari.
Giri la manovella, fioriscono ricordi
Accendere per la prima volta un Playdate suscita emozioni molto differenti tra loro. Per certi versi è un viaggio nel tempo, non solo per l’innegabile somiglianza col primissimo GameBoy (con cui condivide lo schermo monocromatico non retroilluminato), ma anche e soprattutto in quanto riporta al tempo in cui le console erano meno perfettine, più artigianali, meno beni di consumo, più articoli per le nicchie.
L’estrema cura per i dettagli (Playdate si risveglia dal proprio torpore mediante due tocchi ravvicinati del pulsante di avvio, che faranno aprire entrambi gli occhi alla console, come se fosse un Tamagotchi), la cover (opzionale) magnetica e il cavo di ricarica USB – USB-C sono particolari che ci riportano all’età moderna, come il fatto che la console possa vivere se connessa a Internet data la formula che abbraccia.
Un po’ Game Boy, un po’ Netflix
La formula è quella di Netflix: i 24 giochi inclusi nel prezzo arrivano scaglionati, a “stagioni” come le serie della pay-tv: si sbloccano insomma casualmente ogni settimana. Vi verranno recapitati a casa senza doverli scaricare in maniera proattiva. Imparerete ad amare la notifica del vostro Playdate come pure l’animazione che vi vedrà scartare un pacchetto regalo virtuale sulla falsariga della trovata grafica che caratterizzava il download dei videogiochi nel vecchio Nintendo DS.
Un altro aspetto che amerete è il fatto che arrivino in modo casuale, perciò due utenti potranno scambiarsi le rispettive consoline e provare titoli inediti. Volendo, dato che ormai sono passati due anni dal lancio e i giochi tutti presenti nello store virtuale di Panic, è possibile saltare la pantomima per avere “tutto subito”, ma noi ve lo sconsigliamo, perché si rinuncia a tutta l’esperienza studiata dai produttori per rendere ancora più difforme dal solito Playdate.
Sono tanti gli sviluppatori della partita: da Keita Takahashi (autore di Katamari Damacy) a Zach Gage (SpellTower), Bennett Foddy (Ape Out), Shaun Inman (The Last Rocket) e Chuck Jordan (Tales from the Borderlands). La maggior parte dei titoli prova a dare un senso alla manovella che spunta al lato della console e che, contrariamente alle nostre paure, si è rivelata – almeno finora – solidissima. In alcuni per esempio viene usata per far correre un robottino di latta, in altri per mettere a fuoco con l’obiettivo della macchina fotografica e in altri ancora per macinare i chicchi di caffè.
Molti videogiochi della raccolta sono poco più dei divertissement da pochi secondi che rimandano alla gloriosa epopea dei vecchi Game & Watch o ai mini-game della saga WarioWare, altri invece sono prodotti sorprendentemente strutturati, con una resa grafica persino superiore a quelle che dovrebbero essere le possibilità della console.
Insomma, il Playdate è davvero la console da portare in vacanza, anche se non ha il physique du rôle del videogame da giocare all’aria aperta: teme l’acqua ma, soprattutto, teme il sole dato che l’assenza di retroilluminazione e lo schermo che riflette qualsiasi cosa fanno sì che sia praticamente impossibile fare una partita fuori casa, o in ambienti scarsamente illuminati.
Però diverte e lo fa come non accadeva dai primi Game Boy, quando i videogiocatori risultavano ancora pionieri di un mondo quasi interamente vergine, dove si poteva osare e vinceva chi sperimentare. In un mercato videoludico fatto si saghe e che punta sempre e solo sulle stesse IP, rappresenta una boccata d’aria fresca che non mancherà di entusiasmare i veri gamer. Costa un po’, vero, ma in compenso ha tanti giochi inclusi nel prezzo, una modalità di distribuzione simpaticissima e gli altri titoli vengono venduti per pochi euro (in qualche caso sono persino gratis).