Per esempio, rimanendo al tema cardine delle società digitali, vale a dire la gestione dell’overload informativo: quel flusso senza freni che impegna la nostra attenzione ogni giorno andrà ricordato che si tratta, certamente, della questione maggiormente rilevante dei nostri tempi. Una critica pigra e superficiale ci ammonisce da sempre sul fatto che “troppa informazione significhi nessuna informazione”. Per la verità non ci ho mai creduto troppo: ho sempre pensato che troppa informazione significhi troppa informazione. E che il nostro problema sia costruire strumenti nuovi per selezionarla sapientemente.
Pensavo a tutto questo stamattina mentre osservavo sulle prime pagine di tutti i quotidiani del mondo la foto terribile di un padre e una figlia di due anni morti annegati sul greto di un fiume al confine fra USA e Messico. Si tratta di una foto che qualche anno fa nessuno avrebbe pubblicato con una simile evidenza: eppure oggi quell’immagine campeggia non solo sui soliti tabloid dell’orrore o sui quotidiani italiani ma anche sul NYT, sul Guardian, su El Pais.
Trovo sia un esempio di quello che sosteneva Testa: il troppo ha trasformato tutto in qualcosa d’altro. Perfino i grandi giornali che fino a ieri erano i baluardi di un pensiero articolato e colto (non tutti, non sempre) oggi navigano con convinzione dentro questo oceano di troppo che ci avvolge tutti. E finiscono così per assomigliarci con grande esattezza. La scommessa più ardua della società dell’informazione, quella di costruire argini e filtri dentro il flusso gigantesco di bit che ci raggiungono ogni minuto, quella alla quale ci siamo affidati nell’ultimo decennio per sostenere la possibilità tecnologica di scegliere il meglio e solo quello, sembra in casi del genere irrimediabilmente persa. Troppa informazione è diventata troppa informazione. E nella società digitale, dove tutto è ormai troppo, rischiamo di diventare ciechi e sordi come mai ci è accaduto in passato.