Il ceo Gianluca Segato: “La nostra app risponde alla domanda che tutti gli studenti universitari, una volta laureati, si pongono: e adesso che faccio della mia vita?”
Come sta cambiando il mondo del lavoro? Quali sono le professioni del futuro e quali i titoli universitari che garantiscono ancora un accesso a un mercato che, nella narrativa comune, appare sempre più chiuso e asfittico? A rispondere a queste e ad altre domande che si pongono un po’ tutti – soprattutto i più giovani e i neolaureati -, Uniwhere, vera e propria app “navigator” del mondo del lavoro, anche dell’istruzione, creata e pensata per fare da “fratello maggiore” agli studenti, indirizzandoli ai corsi di studi più idonei alle loro attitudini e, successivamente, verso le postazioni lavorative che meglio corrispondono alle loro competenze curricolari.
Che cos’è Uniwhere?
“Sfatiamo un mito negativo: non è vero che in Italia non c’è lavoro. Anzi, le aziende – piccole, medie o grandi che siano – hanno ‘fame’ di nuovi talenti. Il problema è che non li trovano”. Gianluca Segato, 26 anni appena compiuti, ceo di Uniwhere, non ha dubbi. Del resto, mastica big data sul tema da parecchio. La prima versione dell’app l’ha lanciata nel 2015: “All’epoca avevo 22 anni. L’idea iniziale era quella di sviluppare un libretto universitario virtuale. La mia università, così come tutti gli altri atenei del Paese, offriva un sito, ma noi siamo la generazione che parla il linguaggio degli smartphone. Ho intuito che se io avevo esigenza di consultare i miei voti e il mio piano formativo da cellulare, così doveva essere anche per tutti i miei coetanei”.
“Giò, abbiamo un problema”
“Nel giro di due settimane – continua Gianluca – Uniwhere è stata scaricata più di duemila volte. A Padova, nella mia città, uno studente su due la usava. Il problema è che avevo scritto l’app per Android: ora c’era mezza Padova che mi chiedeva la versione iOS. Quindi ho chiamato un mio amico sviluppatore, Giovanni Conz, tutt’oggi in Uniwhere e gli ho detto: Giò, abbiamo un problema! Lui, più grandicello di me, ha tirato dentro un suo collega, Federico Cian. Il nostro ‘trio magico’ si è formato così, quasi per caso”. “Nell’estate 2016, visto il successo di Uniwhere – ricorda Gianluca sorridendo – abbiamo capito che dovevamo scegliere: o quello sarebbe diventato il nostro lavoro o avremmo dovuto lasciare perdere”.
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Perché è una app navigator
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. A cominciare dal fatto che i ragazzi di Uniwhere si sono dovuti trasferire a Berlino per avviare la propria startup: “All’epoca non sapevamo nemmeno cosa fosse una startup o un incubatore”, ammette il numero 1 di Uniwhere. “Abbiamo scelto un incubatore di Berlino, la piazza europea più internazionale che ci sia dopo Londra. Londra infatti era appena uscita dalla Brexit con il carico di incertezze che si sono trascinate fino a oggi”.
Il primo round: 500mila euro
A Berlino Uniwhere porta a termine il primo round: mezzo milione di euro. E inizia la propria metamorfosi. Da ‘semplice’ libretto universitario ad app per fare matchare domanda e offerta sul mercato del lavoro.
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“Chiunque di noi – nota Gianluca – il giorno dopo la laurea, smaltita la sbornia dei festeggiamenti, si chiede ‘e adesso che faccio?’. Non solo: io stesso, se domani non facessi più Uniwhere, non saprei che ne sarebbe di me. Per questo abbiamo capito che l’esigenza fosse quella di fare incontrare le due parti del mondo del lavoro: gli studenti e le imprese”.
Il lavoro c’è, ma le parti non si incontrano
E qui Gianluca va controcorrente, con una affermazione che – probabilmente – indispettirà più di un neolaureato: “Non è vero che non c’è lavoro: ci sono moltissime aziende che anzi si lamentano di non riuscire a trovare le figure professionali che cercano. Questo perché l’istruzione, pubblica e privata, non forma a sufficienza, quindi chi oggi esce dalle università non è preparato ad affrontare l’attuale mondo del lavoro”. “Del resto – osserva il Ceo di Uniwhere – l’Università nasce in pieno medioevo: i corsi si basano su di un mercato di 50 anni fa, è normale che si sia verificato questo scollamento tra il mondo accademico, rimasto quasi inalterato, e un mercato invece molto più dinamico”.
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Da un lato troppa specializzazione, dall’altro molta genericità
E questo progressivo scollamento di cui parla Gianluca Segato ha prodotto un altro ulteriore ostacolo alla ricerca di lavoro osservato dai ragazzi di Uniwhere: “Siccome le aziende sanno che dovranno formare personalmente i neo-assunti, proprio per quell’inadeguatezza di cui abbiamo parlato, hanno smesso di ricercare profili specializzati. Di contro negli ultimi anni sono fioriti corsi di laurea sempre più specializzati. Anche per questo le due parti hanno smesso di capirsi: parlano due linguaggi differenti. Abbiamo studenti laureati in ingegneria dell’atomo e aziende che cercano ingegneri dell’atomo ma che, negli annunci di lavoro, richiedono semplicemente una laurea in discipline scientifiche”.
Un “fratello maggiore virtuale”
Ed è in questa discrepanza, in questo mancato incontro tra domanda e offerta, che opera Uniwhere. Come? Con i big data, perché la startup dà in pasto ad algoritmi proprietari milioni di offerte di lavoro di tutto il mondo, li fonde con altri dati delle Istituzione e li incrocia con i percorsi formativi degli studenti che hanno scaricato l’app.
“Siamo una specie di ‘fratello maggiore virtuale’. Nel momento di massima incertezza di uno studente che deve scegliere un corso di studi piuttosto che un altro o di massimo sconforto di un neo laureato che non trova lavoro, gli consigliamo la strada da intraprendere o gli diciamo: ‘vuoi lavorare in quella azienda? Sappi che servono queste competenze, saper usare questi programmi’, quindi uno si può preparare di conseguenza”. “Il nostro scopo – conclude Gianluca – prossimamente sarà anche quello di far incontrare studenti con aziende che vogliano scommettere sulla loro formazione professionale, finanziandogliela”.
“Il patto sociale si è rotto”
Ma per trovare lavoro bisogna anche cambiare mentalità, come giustamente fa notare il ceo di Uniwhere: “Noi ancora pensiamo che se abbiamo preso una laurea, allora dobbiamo trovare un lavoro. Come se esistesse una sorta di patto sociale implicito che garantisca l’occupazione ai laureati. Del resto, è quello che i nostri genitori ci hanno sempre ripetuto: ‘studia se vuoi lavorare’. Non è più così, quel patto sociale si è rotto. Ma questo significa che non ci sia lavoro. Solo è più difficile trovarlo. Ma per quello ci siamo noi”.