In collaborazione con |
In occasione della riunione dei ministri dell’Agricoltura del G20, che si apre domani a Firenze, una riflessione sulle sfide del settore agricolo e agroalimentare
Nell’ambito del ruolo italiano come paese ospite del summit G20, domani vedremo a Firenze anche la sua declinazione relativa all’agricoltura. Da quanto possiamo apprendere dalle anticipazioni, l’incontro si focalizzerà su alcuni grandi temi, come il raggiungimento delle mete proposte dall’Agenda ONU 2030, l’obiettivo “fame zero”, le buone prassi per l’agricoltura sostenibile e l’iniziativa della “Food Coalition”, nata intorno alla necessità che l’emergenza sanitaria creata da Covid-19 non si trasformi in un’emergenza alimentare, grazie al rafforzamento della resilienza del sistema agricolo globale.
In attesa degli esiti dell’incontro possiamo provare a delineare in prima istanza uno scenario globale del sistema agricolo nei suoi termini attuali. Per questo possiamo giovarci dell’ampia mole di dati messa a disposizione dalla FAO, grazie al rapporto annuale che regolarmente stila, in questo caso il “FAO World Food and Agriculture – Statistical Yearbook 2020”. Ricordiamo che la stessa FAO ha recentemente approntato in collaborazione con l’OECD un documento – “OECD-FAO Agricultural Outlook 2021-2030” – che tenta di delineare gli scenari nella loro evoluzione verso la conclusione del decennio in corso.
Riflettere sui dati può essere utile sia per evitare che, come spesso accade in occasione di questi eventi di risonanza internazionale, passino solo messaggi pessimistici, sia per riflettere sul ruolo che le diverse componenti della tecnica e dell’economia agricola possono avere avuto nel delineare la situazione attuale.
Quale bilancio, su valori globali, possiamo stilare dell’attività agricola mondiale?
Un primo dato che appare rilevante è che la superficie destinata alle colture non è aumentata negli ultimi anni (con un rallentamento verso la stabilità addirittura dagli anni ’60), così come è rimasta stabile la superficie forestale, nonostante l’aumento della popolazione e le accresciute esigenze alimentari, soprattutto di proteine animali, in alcune aree del mondo. Per contro la produzione delle principali derrate agricole (nelle loro diverse declinazioni, cereali, oleaginose, tuberi, frutta e verdura …) ha subito nel ventennio recente un incremento da 6 a 9 miliardi di tonnellate. Aumenti percentuali di poco inferiori hanno ancora riguardato la produzione di carne, latte, uova e prodotti della pesca, testimoniando quindi anche il contributo crescente delle proteine animali alla dieta. Se andiamo ad analizzare i fattori di produzione, oltre a quella “terra” che abbiamo già visto stabile, vediamo che equivalente stabilità, almeno nell’ultimo decennio, ha riguardato l’impiego di pesticidi (preferiamo chiamarli agrofarmaci, rispettando nella denominazione il loro ruolo reale) e di fertilizzanti. Parimenti stabile il livello di emissioni come gas serra. Un relativo calo ha subito invece il fattore lavoro. L’unico fattore in relativo aumento risulta essere quello delle terre irrigate. Possiamo concludere che un principio fondamentale della sostenibilità, produrre di più con meno, ha subito un’affermazione notevole negli anni più recenti.
Questo significa che non ci sono problemi? Al di là di evoluzioni dei prezzi delle derrate principali (le “commodities”) e dei movimenti di scambio (import vs. export) che meritano considerazioni a parte, non possiamo certamente trascurare che l’alimentazione inadeguata, quando non addirittura la denutrizione, non è ancora tra i problemi risolti. Anche qui possiamo registrare progressi, sia in termini di supplemento energetico medio pro capite, che di popolazione denutrita, grazie al contributo positivo riscontrato in Asia e Africa. Quest’ultima aveva visto un decremento della denutrizione dal 25 a circa il 18% della popolazione (2000 – 2014), ma gli ultimi anni hanno riportato il valore verso il 20%. Possiamo anche attribuire qualche responsabilità alla produzione agricola, purché ci si ricordi che alla piaga della fame l’intero corso della storia umana ha visto accompagnarsi anche le piaghe di peste e guerra. Il paradosso è che il dato, in palese aumento in tutti i continenti, Africa compresa, è quello della popolazione obesa.
Una sfida fondamentale
Un’analisi globale condotta sui grandi numeri non risponde certo a tutti i quesiti e ai dubbi, che richiedono una parallela analisi di dettagli in situazioni locali. La sfida di fornire cibo abbondante, buono e sicuro per tutti rimane aperta e correttamente l’OECD (nel rapporto Agricultural policy monitoring and evaluation 2021) la articola in tre punti principali:
- fornire cibo sufficiente, sicuro e nutriente a una popolazione mondiale che si prevede si avvicinerà ai 10 miliardi nel 2050;
- fornire reddito a più di 500 milioni di agricoltori e altri operatori nella catena alimentare e promuovere lo sviluppo rurale;
- farlo in modo sostenibile, utilizzando essenzialmente la stessa quantità di terra e meno acqua, adattandosi al cambiamento climatico e contribuendo a ridurre le emissioni di gas serra.
Se ci soffermiamo su quest’ultimo punto, come abbiamo già rilevato, siamo di fronte a qualche risultato apprezzabile, dato che l’incidenza dei fattori di produzione è andata a stabilizzarsi a fronte di crescente produzione, il che significa ovviamente un aumento di produttività (rapporto relativo fattori produttivi vs. produzione).
A fronte dei macrodati, risulta difficile attribuire e scorporare il peso dei singoli fattori produttivi al conseguimento del risultato finale. Questo anche perché le situazioni agricole nei diversi paesi sono molto diverse e su di esse pesano ulteriori fattori non necessariamente tecnici. Solo un’analisi di dettaglio locale può permetterci di trarre conclusioni affidabili, per altro non sempre esportabili da un contesto agli altri, ovvero tra situazioni di agricoltura intensiva, che ha raccolto tutti i contributi dell’innovazione degli ultimi decenni, e agricoltura ferma a livelli di innovazione inferiori, se non addirittura a forme consuetudinarie e di sussistenza.
Ponendo l’attenzione principalmente sull’agricoltura intensiva, possiamo ipotizzare che i vantaggi produttivi derivino:
- dal miglioramento genetico delle specie coltivate mediante tecniche convenzionali, supportate da strumenti di conoscenza e di selezione di natura biotecnologica (mappatura genica e marcatori genetici) e dall’introduzione del miglioramento mediante tecniche di modificazione genetica;
- da un più razionale impiego degli agrofarmaci e dall’introduzione di nuovi principi attivi, spesso efficaci a dosi inferiori rispetto a prodotti più datati, accompagnato da una parallela razionalizzazione nell’uso dei fertilizzanti;
- dal miglioramento delle tecniche di irrigazione, tese ad allineare in modo più efficace la disponibilità irrigua con le esigenze delle piante e a risparmio di acqua;
- dalla diffusione di macchine agricole più efficienti nell’operatività e nelle rese energetiche;
- dalla crescente diffusione di digitalizzazione, gestione di dati, informatizzazione dei processi produttivi, di cui si giovano tutti i fattori sopra elencati.
Fatta questa sintesi e focalizzando l’interesse sul contesto di, vediamo comunque che la maggior attenzione viene oggi riservata agli aspetti di digitalizzazione, informatizzazione e gestione dei dati, da una parte, e al contributo delle scienze della vita, dall’altra, ovvero a quella dimensione che potremmo definire biotecnologica, basata sulla biologia molecolare e sulla genetica.
Il contributo delle biotecnologie
Un primo approccio al contributo delle biotecnologie fa riferimento al termine biodiversità, nella sua accezione non solo di diversità tra le specie e nella stessa specie in ambienti naturali, ma di approfondita conoscenza delle caratteristiche genetiche delle piante presenti sia in natura che nella pratica agricola. Questa forma di conoscenza rappresenta la base di partenza per qualsiasi ulteriore progresso, perché senza legare l’espressione di un carattere di interesse alle sequenze geniche da cui lo stesso dipende, non si può pensare ad una genetica avanzata. Gli strumenti oggi a disposizione consentono una rapidità e un dettaglio di mappatura dei geni fino a ieri impensabile. Se a ciò uniamo la possibilità di automatizzare il rilevamento delle caratteristiche morfologiche visibili con apposite piattaforme informatizzate, comprendiamo come ora sia possibile conseguire il miglioramento delle caratteristiche di una specie coltivata in tempi rapidi e con metodi di precisione.
La conoscenza approfondita di una specie botanica di interesse agrario spazia ovviamente nell’intera gamma della sua diversità genetica, nella diversità appunto delle molteplici varietà coltivate, comprese quelle non più in uso diffuso, fino alle piante più simili al progenitore selvatico. Possiamo così costruire quel catalogo ideale di caratteri all’interno del quale trovare una gamma di risorse genetiche che vanno dalla resistenza alle avversità biologiche (malattie, parassiti) e ambientali (freddo, siccità…), all’espressione di caratteristiche sensoriali utili all’apprezzamento del consumatore e dell’industria di trasformazione e alla maggior resa produttiva.
L’aver individuato tali caratteri d’interesse sarebbe di modesta utilità se non disponessimo ora di strumenti rapidi, efficienti e precisi per poterli utilizzare, il che significa poterli trasferire in quelle varietà vegetali di cui già oggi disponiamo e che, grazie a una genetica più convenzionale ed empirica, hanno comunque già raggiunto un potenziale produttivo notevole. Gli strumenti dell’editing genomico sono quelli che ci consentono oggi di prevedere ampie possibilità di far nostri i caratteri utili all’interno di una singola specie, senza perdere i vantaggi già ottenuti in decenni, se non secoli, di miglioramento genetico, caratteristiche e vantaggi che è difficoltoso mantenere inalterati con le tecniche di miglioramento convenzionali. Il termine editing è appropriato nella sua analogia con l’equivalente editing dei programmi di scrittura digitale: si trova la sequenza di caratteri tipografici che ci interessa (le sequenze genetiche, nell’analogia) con la funzione di ricerca, per poi sostituire qualche carattere, aggiungerne o cancellarne. La tecnica ha applicazione generale in biologia, anche per la salute, e meritatamente le scienziate scopritrici hanno ricevuto il premio Nobel per la chimica nel 2020.
Questa prospettiva di miglioramento non va oltre la barriera biologica della specie e non possiamo equipararla agli OGM, ma consente di raggiungere, appunto con precisione e rapidità fino a ieri impensabili, risultati che teoricamente si potrebbero raggiungere solo con un faticoso e lungo processo di miglioramento convenzionale. Significativamente il processo prende anche il nome di “tecnologie di evoluzione assistita”.
L’impatto delle “Tecnologie di Evoluzione Assistita”
Le più recenti tecniche di innovazione genetica, in particolare l’editing genomico, rappresentano quindi una prospettiva di estremo interesse per l’agricoltura, tanto più in quanto la loro flessibilità, velocità e adattabilità le rendono particolarmente utili a fronte anche della necessità che essa ha di adeguarsi alle possibili evoluzioni climatiche e alla insorgenza di nuove patologie, come alla presenza di nuovi organismi invasivi.
Queste forme di innovazione, da un lato, tendono ad adeguare la pianta all’ambiente che la ospita e non viceversa; ovvero, semplificando, in un ambiente siccitoso prevedo una pianta più tollerante alla siccità, piuttosto che prevedere l’irrigazione. Dall’altro, svincolano la coltivazione, almeno parzialmente, dall’apporto di fattori esterni; sempre semplificando, se ho una pianta resistente a una malattia fungina, non dovrò intervenire con un trattamento curativo per la malattia stessa, con evidenti vantaggi in termini di costi e impegno di lavoro e risorse energetiche.
Gli strumenti di maggior conoscenza dell’informazione genetica non si limitano a riversarsi sul pur importante ambito del miglioramento genetico vegetale, ma aprono nuove prospettive nel settore della microbiologia, alla quale oggi chiediamo parimenti soluzioni innovative, appunto basate sui microrganismi, per la difesa delle piante, mettendo a disposizioni modalità d’azione diverse e complementari alla difesa chimica convenzionale. Prospettive analoghe si aprono per il miglioramento dello stato nutrizionale delle colture, principalmente grazie alle interazioni positive con i microorganismi a livello di apparato radicale, con un meccanismo che possiamo pensare di tipo “probiotico”, oppure grazie alla capacità microbica di utilizzare l’azoto dell’atmosfera come nutriente per poi renderlo fruibile dalle piante.
In questi termini, il contributo delle biotecnologie a forme di “innovazione sostenibile” – sostenibile almeno nel senso ambientale ed economico – si presenta di sicuro interesse, anche se il realismo ci impone di considerare i problemi dell’agricoltura nella loro complessità e nella loro declinazione particolare a livello locale. Le soluzioni agli ambiziosi obiettivi che l’OECD ha proposto, più sopra citati, non si esauriscono certamente solo nell’innovazione tecnologica, biotecnologica e digitale che sia.
Il ruolo della politica
Resta però importante che a livello politico l’innovazione possa avere un riconoscimento tale da portare ad essa misure coerenti di sostegno alla ricerca pubblica e privata e alla loro integrazione, così come al trasferimento tecnologico, verso l’impiego pratico da parte dei produttori agricoli. L’Unione Europea propone una politica di riforma del sistema agricolo, nell’ambito del cosiddetto “Green Deal” che però sembra più sensibile a istanze di facile consenso a livello sociale. Nel programma conseguente “Farm to Fork” (in pratica “dal produttore al consumatore”) trova più spazio l’orientamento verso forme di agricoltura meno produttive, e quindi in realtà anche meno sostenibili, piuttosto che verso un’innovazione responsabile quanto sostenibile. Se relativamente ampi riferimenti sono riservati alla digitalizzazione, quanto mai necessaria, le scienze della vita e le biotecnologie quasi scompaiono, mentre dovrebbe aprirsi un costruttivo percorso a monte, ovvero “Lab to Farm” (“dal laboratorio al campo”) in modo da portare l’innovazione dove realmente serve in tempi e con modalità tale da rendere l’agricoltura europea competitiva e sempre più compatibile con le diverse esigenze ambientali. Gli strumenti giuridici necessari a garantire la valutazione della sicurezza e l’autorizzazione per l’accesso al mercato richiedono anch’essi un tempestivo adeguamento, proporzionato alle caratteristiche reali di quanto vanno a normare, con un approccio caso per caso e una bilanciata valutazione dei benefici, senza preclusioni ideologiche. In prima istanza, devono poter consentire la sperimentazione in campo con regole chiare e di razionale adozione.
Doveroso anche nel nostro paese considerare quanto possa essere utile a sostenere il “Made in Italy” alimentare, che mantiene posizioni di grande successo grazie a un’agricoltura estremamente diversificata e specializzata che vanta primati produttivi, da “podio”, per più di 40 colture. Agricoltura innovativa, sostenibile e redditizia, capace di rispondere in pieno alle esigenze dell’industria alimentare, oppure, pur nella necessità di sostenere anche forme agricole più marginali, agricoltura da museo?
Lo ha recentemente sottolineato anche il sottosegretario all’agricoltura Centinaio: “Sono due le sfide più urgenti per il settore agroalimentare italiano ed europeo. La prima è quella della ricerca e dell’innovazione tecnologica, un fronte in continua evoluzione che l’Italia deve essere in grado di sostenere anche economicamente. La seconda sfida è quella ecologica, della sostenibilità. Al settore primario è richiesto di operare nel rispetto dell’ambiente. Bisogna tuttavia tener conto anche della necessità di una remunerazione che permetta alle aziende di farlo.”
Per altro il problema è anche più vasto se la stessa OECD lamenta nel suo ultimo rapporto di monitoraggio delle politiche agricole, già citato più sopra, che l’innovazione non ha un ruolo adeguato. Come dichiarato dal direttore dell’OECD per il settore agricolo Marion Jansen:
“Solo un dollaro su sei di sostegno pubblico al bilancio dell’agricoltura a livello globale viene speso in modi efficaci nel promuovere la crescita sostenibile della produttività e la resilienza agricola”. “La maggior parte del supporto è inefficace nel migliorare le prestazioni dei sistemi alimentari, o addirittura dannoso. Mentre emergiamo dalla pandemia di COVID-19, i governi dovrebbero porre l’innovazione agricola al centro del loro sostegno al settore“.
Riflessioni che sarebbe auspicabile siano riprese nel G20 Agricoltura.