Se oggi possiamo pagare un caffè con lo smartphone lo dobbiamo a tre giovani imprenditori piemontesi. Alberto Dalmasso, Dario Brignone e Samuele Pinta sono gli artefici di Satispay, una startup a portata di app che di fatto consente ai consumatori e utenti digitali di effettuare anche piccoli pagamenti grazie ai dispositivi mobili.
Sul palco di StartupItalia! Open Summit nel 2015
E quanta strada hanno fatto questi tre under 35. Due anni fa sono saliti sul palco dello StartupItalia! Open Summit, selezionati come una delle dieci realtà nostrane più innovative, inseriti nella rosa delle dieci finaliste come startup dell’anno. In tasca l’immancabile smartphone e un mercato da contaminare. «Da quel dicembre 2015 sono cambiate tante cose. Siamo diventati una realtà consolidata, un fenomeno nazionale. Eravamo vicino ai 900 negozi attivi, principalmente concentrati su una zona locale. Oggi siamo ovunque, con 18mila esercenti, 160mila utenti e un team di 55 persone. Siamo molto più strutturati, il grosso del lavoro di integrazione e consolidamento della piattaforma è stato fatto. Oggi non ci resta che schiacciare sull’acceleratore, trovando i giusti investimenti da una parte e aggregando il miglior team di sviluppatori e vendite dall’altra», racconta Alberto Dalmasso, classe 1984, una laurea in economia e sei anni di esperienze in ambito commerciale. Poi nell’estate 2012 insieme a Dario e Samuele l’intuizione di Satispay, di cui oggi è CEO. «Alla fine del 2012 ci siamo licenziati e nel gennaio 2013 abbiamo iniziato a lavorare full time. Siamo nati da un bisogno concreto: creare la possibilità di pagare anche piccole somme di denaro senza contante, idea insostenibile a causa dei circuiti di pagamento attuali, perché dietro ogni transazione con la carta c’è una filiera che deve essere remunerata e che è costosa per l’esercente e persino per il consumatore».
Il terzo round di finanziamento che potrebbe crescere
La startup ha il suo quartier generale a Milano, sede distaccata a Londra. Dopo aver raccolto oltre 8 milioni di euro attirando anche investitori stranieri, Satispay è ora protagonista di un terzo round di finanziamento: al momento i tre giovani imprenditori hanno raccolto altri 14,5 milioni, ma il round è ancora aperto e potrebbe crescere. I numeri raccontano più di ogni altra cosa l’espansione di Satispay. Ma dietro quei numeri si annidano le persone, elemento strategico della startup.
L’intervista
Alberto, facciamo un passo indietro di due anni. Cosa ricordi?
«Ricordo una fase ancora grezza, di definizione della infrastruttura tecnica: distribuivamo il servizio con una banca partner e oggi siamo noi intermediari finanziari autorizzati, pronti ad operare in 18 Paesi europei».
Cosa hanno rappresentato questi due anni?
«Un grande sviluppo dei numeri, irrobustititi da un punto di vista tecnologico e societario. Ora siamo impegnati nel vero salto commerciale con i grandi retail. Le operazioni delle ultime settimane come Esselunga lo testimoniano».
Che tipo di mercato è l’Italia?
«In Italia ci sono molti soldi, ma siamo ancora limitati come investimenti: non ci sono i professionisti del settore e si registrano pochi venture e con poca esperienza. I privati si stanno organizzando bene con club che esternalizzano l’azione e trovano analisti che investono. Questo in fondo è specchio della cultura italiana: in Borsa ci sono prevalentemente banche e l’imprenditore italiano è figlio dell’azienda familiare, con una visione spesso limitata. Peraltro oggi il venture capital è in mano a ex manager o ex consulenti che prima avevano società: mancano competenze tecniche specifiche per creare casi di successo. Occorrerebbero più consapevolezza, più generosità, più visione».
«Mancano competenze tecniche specifiche per creare casi di successo. Occorrerebbero più consapevolezza, più generosità, più visione».
Perché avete scommesso proprio sull’Italia?
«Lo abbiamo ritenuto un mercato appetibile: siamo il secondo Paese al mondo per risparmio privato dopo il Giappone».
Persone e infrastrutture: come si legano questi due elementi?
«La cosa che ha richiesto maggiori sforzi è creare il team, che per una startup ha delle complessità particolari. Devi iniziare ad avere persone a bordo che collaborino al meglio».
Uso massivo del cellulare, necessità di andare oltre le carte, una struttura reticolare di esercenti: possiamo dire che Satispay è tagliata su misura per il mercato italiano?
«Il nostro è un Paese che per certi aspetti è un po’ scettico, prevenuto, fuori avremmo avuto da parte delle grandi aziende una accettazione più rapida. Però i consumatori usano lo smartphone e si lamentano che senza contante sono in trappola, perciò qui abbiamo visto il Paese ideale».
«3 lezioni da Satispay: partire dalle persone che fanno sempre la differenza, darsi del tempo e dedicarsi full time».
Tre consigli che ti senti di dare agli startupper italiani?
Ci sono alcune condizioni di base che non si possono prescindere: bisogna fare lo startupper full time. Devi subito dedicare la risorsa più importante, ovvero il tuo tempo. Poi devi parlare a tutti della tua idea: più che copiarti decideranno di finanziarti. Anche perché la startup oggi vive del passaparola».