Comunicare con tatto e diplomazia: per alcuni un talento naturale, per altri una conquista sudata. Per tutti, a prescindere dai ruoli, una necessità. Ma perché è più che mai necessario “saperci fare”, conoscere i ferri del mestiere, anche a chi per lavoro si occupa – ad esempio – solo di numeri o progetti?
Le motivazioni partono dalla ricerca dei migliori collaboratori, che oggi avviene su base più ampia rispetto al passato: la mobilità a basso costo e la Rete hanno fatto sì che la selezione del personale si sviluppi su base nazionale, internazionale, a volte, addirittura, globale.
Ma se le competenze tecniche parlano un linguaggio universale, non altrettanto vale per la cultura di provenienza dei candidati; e far convivere nello stesso ufficio persone con mentalità e abitudini distanti può risultare estremamente difficile.
Non solo. Le macchine hanno automatizzato buona parte delle operazioni routinarie, e oggi la ricerca del talento – molto più che quella della disciplina – è centrale per reggere la sfida col presente e tenere il passo. La tendenza è quella di scovare professionalità trasversali, in grado di spaziare; ma se la diversità arricchisce senz’altro un’azienda, le differenze tra un approccio al lavoro più formale e uno meno rigido possono sfociare in conflitti aperti e far perdere di vista i vantaggi che derivano dalla presenza di un team sfaccettato.
Prima regola: no all’ipocrisia
Il collega rumoroso, quello invadente, l’inopportuno, l’inaffidabile; il capo dispotico, quello lunatico, quello autoritario. Già Teofrasto, filosofo greco allievo di Aristotele, nei suoi “Caratteri” descriveva con dovizia di particolari – e non senza qualche nota ironica – le personalità e le loro combinazioni, spesso ad alto rischio.
Parliamoci chiaramente: comunicare con tatto non significa, contrariamente a quanto spesso si immagina, sostituire alla spontaneità un’ipocrisia di facciata. Il fine non è conformarsi a un codice di comportamento, ma migliorare la qualità delle relazioni. Imparare a destreggiarsi, a qualsiasi livello, è questione di sopravvivenza. Ecco, allora, alcuni consigli tratti dall’esperienza.
Per relazionarsi in maniera efficace, il primo suggerimento è mettersi nei panni di chi abbiamo di fronte. Provare a immaginare le sue sensazioni, le motivazioni che lo spingono ad agire. Un esercizio di empatia che può risultare difficile sulle prime; ma che si può imparare con la pratica. Certo, ci sono delle gerarchie ed è giusto rispettarle: ma, se da una parte, un capo che voglia essere leader sa spiegare le proprie decisioni per renderle più digeribili ai collaboratori, dall’altra ogni dipendente motivato sente il dovere – e non solo il diritto – di contribuire alla crescita aziendale condividendo il proprio punto di vista.
Il secondo consiglio, è, quindi, proprio questo: cercare di essere assertivi. Le personalità più docili, quelle sempre disponibili, non hanno trovato la chiave per convivere bene: evitando lo scontro per principio, piuttosto, accumulano risentimento e frustrazione. Non solo: diventano zavorre per l’organizzazione, che ha bisogno del contributo di tutti per correggere gli inevitabili errori di prospettiva.