Le false notizie in campo alimentare sono tra le più diffuse e anche tra le più difficili da smentire, come dimostra il caso del “caffè che fa male al fegato”. La ricerca dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
Da tempo ci si chiede come algoritmi e Intelligenza Artificiale possano individuare e segnalare le notizie false che circolano sul web, magari anche eliminarle, ma è ormai sempre più chiaro che la vera soluzione non è questa. Non ha senso, infatti, e molto spesso non è nemmeno possibile, cancellare le fake news dalla Rete: al contrario, dobbiamo lavorare perché ognuno di noi sviluppi la capacità di analizzare e riconoscere la qualità dell’informazione.
Una competenza da applicare in ogni campo, dalla medicina all’alimentazione. Lo sostiene per esempio la Royal Society, prestigiosa associazione scientifica britannica, per quanto riguarda l’informazione sulla nostra salute. Lo stesso vale per il settore del food, come risulta da una ricerca dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, presentata al Festival del giornalismo alimentare di Torino, nell’ambito dell’incontro “Le principali fake news sull’alimentazione che circolano nell’infosfera 2022”.
Fake news sull’alimentazione: dal caffè all’ananas
Innanzitutto quali sono state alcune delle notizie false più diffuse negli ultimi cinque anni per quanto riguarda i cibi che abbiamo sulle nostre tavole? “Chi ha il diabete può mangiare tanta frutta”, per esempio: a ritenerla una fake news è solo il 44,91% degli italiani, con un livello di interesse verso questo tema cresciuto del +130% negli ultimi 5 anni. “La carne rossa fa venire il cancro” è una fake news per il 27,25% delle persone (interesse +90%). E ancora, “l’ananas brucia i grassi”: solo il 7,98% degli intervistati ritengono falsa questa affermazione (interesse + 500%). “Il cibo senza glutine è più salutare” è una fake news per il 36,88% (interesse +140%), mentre “il caffè fa male al fegato” lo è per il 27,2%.
La ricerca si è concentrata in particolare su quest’ultima affermazione, che ha avuto una risonanza tale (il livello di interesse è cresciuto del 450% negli ultimi 5 anni) da dover essere smentita dall’Istituto Superiore della Sanità il 13 giugno 2019. “Una dichiarazione ufficiale, che però di fatto non ha ottenuto l’effetto voluto, perché la fake news ha continuato a circolare come tale, anche se nel corso del tempo è aumentata la percentuale di persone che in grado di gestire la notizia anziché subirla, come risulta dall’analisi dei commenti sui social”, sottolinea Eugenio Iorio, Direttore Medialab dell’Università Suor Orsola Benincasa.
Alimentazione e salute: le fake news dal web al passaparola
Questo caso, come tanti altri, conferma da un lato la tendenza del web alla polarizzazione: di fronte a una tesi non esistono vie di mezzo, si sta di qua oppure di là, le sfumature di pensiero non sono ammesse. Dall’altro mostra come il debunking, ovvero l’opera di demistificazione e confutazione di notizie o affermazioni false o antiscientifiche, non funzioni: d’altronde già Indro Montanelli, ai tempi della carta stampata, sottolineava come la smentita non fosse altro che la notizia data due volte.
Oggi, con il web, è ancora più difficile far passare il messaggio che una notizia è falsa: questo comporta una responsabilità maggiore da parte di chi comunica, perché, una volta diffusa un’informazione, è praticamente impossibile contrastare la spreadability, ovvero la capacità di ampia e veloce diffusione che caratterizza i media attuali.
Non solo. “Una tesi che non ha fondamento scientifico è difficile da rimuovere dai motori di ricerca, ma ancor più dalla consapevolezza delle persone”, afferma Marco Magheri, docente di Comunicazione nel campo della nutrizione e dell’agroalimentare all’Università Campus Bio-Medico di Roma e segretario generale dell’Associazione Italiana della Comunicazione Pubblica e Istituzionale. “Ci sono siti non autorevoli che approfittano delle scarsa attenzione con cui navighiamo sul web, per portarci ad assimilare nella nostra mente informazioni non verificate. Queste, a loro volta, si diffondono tramite passaparola, soprattutto se si parla di cibo, tema che sta particolarmente a cuore a noi italiani. Quante volte ci ritroviamo a tavola a discutere di alimentazione e salute, riportando ciò che abbiamo sentito dire?”.
Formazione individuale contro le fake news
“L’infosfera si caratterizza per il mantenimento dei nostri bias cognitivi: cerchiamo, interpretiamo e favoriamo le informazioni che confermano o supportano le nostre precedenti convinzioni e tendiamo a credere a quello in cui credono i nostri pari”, aggiunge Iorio. Sono le echo chambers (o “camere d’eco”) del web a supportare questa nostra predisposizione: ambienti virtuali che si creano all’interno di una piattaforma di condivisione online, in cui un utente visualizza prevalentemente contenuti coerenti con le sue ideologie ed interagisce maggiormente con chi già condivide le stesse opinioni. “Tutto questo ci deve far capire che contro le fake news non può bastare una mediazione esterna, ma serve soprattutto un’azione educativa e formativa, che cominci fin dalle scuole elementari, per dare a ognuno gli strumenti necessari a costruirsi una resilienza individuale verso certi meccanismi del sistema informativo”.
Insomma, sta a noi imparare a riconoscere le fake news. Non si può nemmeno contare sull’autorevolezza delle istituzioni, che dovrebbero essere garanti dell’informazione, perché il rapporto di fiducia con i cittadini oggi è profondamente in crisi. “Eppure l’impossibilità di smentire alcune notizie false, come quelle che sostengono che i latticini fanno male oppure che i prodotti gluten free fanno bene a tutti, comporta problemi consistenti per tutti noi, come singoli, ma anche come comunità e come territorio. Se infatti agricoltori e allevatori smettono di produrre determinati prodotti, perché non vanno più di moda a causa delle fake news che circolano sul web, si rischiano conseguenze anche sociali e ambientali, dai danni all’economia alla riduzione della biodiversità”, conclude Magheri.