Il direttore dell’edizione online del Fatto Peter Gomez parla a Startupitalia: «La bufala più grande è la “post-verità”, inventata dai politici che perdono». Su Facebook e il futuro dei giornali: «A Zuckerberg serve più qualità, ma intanto paga la pubblicità quanto Google». Gli haters sono pagati? «Penso di sì, ma va dimostrato»
Giornalista d’inchiesta, a 23 anni Peter Gomez era già uno dei pupilli di Montanelli, al Giornale. E per vent’anni, dalle colonne (prevalentemente) dell’Espresso e con i suoi libri è stato uno dei watchdog più temuti dal potere, di cui ha studiato e svelato il malaffare, la corruzione, i legami e le connivenze con le mafie e la criminalità organizzata.
A 46 anni, nel 2009, è stato con Antonio Padellaro e Marco Travaglio tra i fondatori de Il Fatto Quotidiano, dirigendone dall’inizio l’edizione online, allora chiamata “AnteFatto”, che ha sostenuto (con le sottoscrizioni) e preceduto di alcuni mesi l’uscita del giornale cartaceo in edicola. Non è sbagliato dire, quindi, che la prima base di lettori il Fatto l’abbia costruita proprio online. Negli stessi anni in cui Internet stava subendo una delle più importanti metamorfosi della sua storia, con la diffusione, anche in Italia, dei social network.
Nel giro di sei anni ilfattoquotidiano.it è divenuto uno dei siti più visti d’Italia, registrando (fonte SimilarWeb) 40 milioni di utenti unici al mese. Nella sua redazione, a Milano, lavorano 16 giornalisti, e il budget mensile destinato al giornale è di circa 12mila euro tra borderò per i collaboratori e i videomaker. E da qualche mese hanno iniziato a utilizzare anche gli Instant Articles di Facebook che in termini di pubblicità, rivela Gomez «paga praticamente quanto Google».
Mark Zuckerberg, intanto, promette un giro di vite contro le bufale, ventilando apertamente il coinvolgimento di grandi editori e giornalisti in team globali e locali per il controllo della veridicità delle notizie diffuse su Facebook (e pagandoli, direttamente e indirettamente), tutti coloro i quali facciamo questo mestiere forse dovremmo iniziare ad occuparcene. Non tanto per il futuro e la libertà del nostro lavoro quanto per quelli, molto più importanti, di chi quotidianamente ci legge.
Ecco perché abbiamo pensato, accanto allo studio (e alla spiegazione) delle potenzialità e dei possibili problemi di un mercato in continua evoluzione, di aprire uno spazio di confronto anche e soprattutto con le altre testate.
Direttore Gomez, ilfattoquotidiano.it si contende il terzo posto tra giornali online più letti in Italia. Perché avete scelto di portare i contenuti direttamente dentro Facebook?
«Su Istant articles di Faceboook Per utenti unici siamo il terzo sito in Italia, per pagine viste il secondo. Allo stato per noi è Facebook solo una piattaforma di distribuzione dei nostri articoli su mobile. Perché c’è il tradizionale problema della lentezza del caricamento dei contenuti. E oggi quasi il 50% del nostro traffico viene da mobile».
La pubblicità però la mette Facebook o voi? E quanto paga?
«La piattaforma dà la possibilità di mettere la tua pubblicità, che comunque è pagata quanto Google, 0.40 di Cpm (40 centesimi ogni mille impressions, ndr). Ti dirò: all’inizio speravo in un po’ di concorrenza sull’advertising tra Google e loro».
La prima bufala? La post-verità
Ora però pare che Facebook, per combattere le fake news, voglia mettere nelle mani dei grandi gruppi editoriali la “validazione” degli articoli…
«Potrebbe succedere, però non ci credo perché è un lavoro talmente mostruoso, talmente grande… E poi cosa ti danno, il bollino blu? Come stabiliscono se un articolo è certificato? Ci son troppi contenuti da monitorare, è impensabile che il caporedattore del Corriere di turno possa stare lì a fare una cosa del genere. E poi, se proprio dobbiamo parlare di bufale, diciamocelo che la prima di tutte è proprio questa faccenda della post-verità. Se la sono sono inventati i media, o meglio, la politica, per giustificare le proprie sconfitte. Neanche a me sta simpatico Trump, ma raccontare che ha vinto le elezioni grazie alle bufale su Facebook o twitter è una cazzata. Così come per i referendum su brexit e quello italiano».
E in Italia, davvero le bufale hanno tutto questo potere?
«Non capisco tutto questo dibattito. Molti, ad esempio, si lamentano dei contenuti sull’immigrazione. Un giorno ho voluto approfondire, e a ben vedere molti di questi contenuti che vengono condivisi sono di fatto cose riprese dalle testate nazionali. Quindi di cosa stiamo parlando? Forse potremmo fare un discorso, invece, su quanto è grosso il problema dei commenti sui social, di quanta gente si insulta…»
Profili fake e bugie
Ci stai dando una pista investigativa?
«Non è un fenomeno di massa, sarebbe bello fare un’inchiesta. Ho la sensazione che un numero di commentatori che vengono da me sul sito che fanno casino su Disquss è un numero piccolo di persone rispetto alla gran massa che utilizza il mezzo. Sinceramente non so nemmeno se chiamarli troll. E’ un numero molto piccolo ma ci sono da entrambe le parti, anche del Pd. E non so se gratis o a pagamento, per i 5 Stelle ipotizzo che lo facciano gratis perché non hanno una lira…»
Possiamo definirli dei “militanti”?
«Diciamo che sono dei gruppi di super tifosi. Anche se poi l’esempio di Beatrice Di Maio insegna…»
Quando ci cascano addirittura i giornali
Beatrice Di Maio, lo ricordiamo per chi ci legge, era lo pseudonimo di un account molto attivo nell’attaccare il governo Renzi. Si pensava fosse un fake utilizzato dai 5 Stelle e addirittura qualcuno aveva anche ipotizzato che ci fosse una sorta di grande rete della diffamazione gestita dal Movimento di Grillo. E invece era la moglie di Renato Brunetta…
«Ricordiamo: La Stampa scrisse dei pezzi su quel profilo fake citando una querela fatta dall’allora sottosegretario Luca Lotti. L’obiettivo della denuncia di Lotti era probabilmente quello di svelare l’eventuale struttura pro M5S. Solo che l’operazione ha fatto cilecca. Beatrice Di Maio era la signora Brunetta. E La Stampa ha rischiato di vedere minata di molto la sua autorevolezza. E non perché non dovesse dare notizia della querela o perché Lotti si sbagliava, ma perché è buona regola non dar troppo credito alle ipotesi dei politici senza prima averle completamente verificate. La politica infatti vive di propaganda e per questo è per sua natura approssimativa. Sulla questione dei troll avevo anche io una mia ipotesi di lavoro, ci abbiamo lavorato un po’ e ci ci stiamo lavorando. Ma non scriveremo niente finché non saremo sicuri al 100 per cento..»
In altre parole, spesso la bufala non viene dal web ma dai giornalisti…
A volte, più spesso dai politici. Detto ciò nessuno può negare il problema che i social o i forum di commenti esista. Ma la mia sensazione che a crearlo siano pochissime migliaia di persone o anche meno».
Tu a esempio, Peter, scrivi e interagisci molto sui social con i lettori e i contestatori…
«L’essenziale è essere sempre educati. Quando diventi un personaggio pubblico se rispondi con la rissa è finita. Devi sapere usare gli strumenti della disintermediazione».
La privacy è morta con Internet e gli smartphone
Tornando alla questione iniziale, ovvero sul futuro dei giornali e su Facebook che si pone a grande contenitore di tutte le notizie del mondo. Siamo nell’era dei cookies, dei finger printing, e ora non è difficile immaginare per il futuro un recinto chiuso, Facebook, che saprà sempre più tutto di noi. E questi dati valgono più dei soldi per chi gestisce la pubblicità…
«Più che di Facebook questa è una caratteristica di Internet. La privacy, da quando c’è internet e ci sono i social e gli smartphone, è morta. Dal punto di vista teorico tutti possono sapere tutto di noi. Sta cambiando tutto da questo punto di vista. Facebook si mette a raccogliere pubblicità da meno tempo rispetto Google. Probabilmente Google ne raccoglie molta di più. Facebook in particolare avrà per forza la necessità di avere dell’informazione di qualità, perché non può ridurre tutta la sua piattaforma a quello che mettono gli utenti non professionali e non professionisti…»
Quindi le bufale sono un problema per Facebook perché gli fanno perdere soldi anziché guadagnarne?
«Io credo che la l’incidenza delle bufale non sia così forte come si dice. E’ la realtà che crea rabbia, non le bufale. Basta raccontare la realtà e la gente si incazza. Pensa alle banche. É la realtà quella, non è una notizia falsa, purtroppo. Magari lo fosse. Poi, ovviamente nessuno nega l’esistenza di un certo numero di bufale. Pensa che una volta abbiamo fatto un servizio video sul raduno italiano di quelli che credono alle scie chimiche, e lì apriti cielo con alcuni che commentavano “ah, il Fatto crede alle scie chimiche”. E’ una battaglia persa. Ripeto, i commenti sono peggio delle bufale».
Haters di professione? Forse
Sui commenti dei cosiddetti haters, a proposito, c’è chi dice che stia diventando un mestiere. Credi che qualcuno possa essere pagato per commentare?
«Penso di sì. Ci ho lavorato tanto per trovarli ma non sono riuscito a dimostrarlo. Sarebbe un grande scoop poterlo fare».
Quanto guadagna il sito del Fatto
Parliamo un attimo del vostro modello di business. Oltre all’adv sito si finanzia anche grazie alle sottoscrizioni lettori, giusto?
«La sottoscrizione per il web sta andando molto bene. Dal 21 dicembre registriamo una media 35 sostenitori al giorno, se andassimo avanti così per tutto l’anno avrei quasi risolto i miei problemi di bilancio (sorride, ndr)… E comunque in cambio dei loro soldi noi offriamo ai lettori un servizio, come seguire le riunioni di redazione in diretta streaming, partecipando in parte alla creazione del giornale. Le nostre riunioni di redazione non sono censurate, tranne quelle dove vi siano in ballo inchieste rilevanti».
E con la pubblicità quanto incassate?
«Ad oggi raccogliamo poco più di 3 milioni, ci manca un milione per pareggiare i costi».
I blogger, non li pagate, giusto?
«No, non li paghiamo. Anche se mi piacerebbe farlo un giorno, quando saremo in pari, puntare a un revenue share delle entrate pubblicitarie. Certo, molti di loro dopo sono diventati personaggi in questi anni, hanno fatto carriera, ma soprattutto per noi è molto interessante avere punti di vista diversi».
E le loro opinioni sono le opinioni del giornale?
«Le prime due posizioni del blog rappresentano la linea del giornale, ma per il resto c’è davvero pluralità, perché se uno è per la libertà di pensiero non deve solo professarla ma consentirla. Invece molti lettori forse preferirebbero che scrivessimo solo quello che pensano loro».