«Ubriaco di innovazione». Così si è definito al rientro dal CES di Las Vegas, a gennaio scorso, Fabio De Felice, fondatore dell’azienda di robotica Protom e professore di Impianti industriali all’Università degli Studi di Napoli Parthenope. Alla fiera tech più famosa al mondo, in Nevada, ha presentato un robot che punta a potenziare i percorsi di apprendimento in classe, senza togliere lavoro ai professori, ma facendo da assistente. Con lui siamo tornati sui temi che da tempo definiscono lo scenario tecnologico: lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, le sfide per il lavoro, le opportunità e i rischi se si resta passivi. Da molti anni De Felice si divide tra il mestiere del professore e l’impegno in Protom. «Non sono mai stato Ceo nella fase di startup. Ma ho preservato il ruolo sulla strategia e sulla vision, a cui contribuisco tutt’oggi. Oggi fatturiamo 40 milioni di euro».
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Su LinkedIn si è detto ubriaco di innovazione dopo i giorni passati al CES di Las Vegas a gennaio scorso
Mi sono sforzato a cercare un altro termine, ma non mi è venuto in mente. E non mi riferisco soltanto a quanto visto al CES. Quanto ho visto negli Stati Uniti è stata una conclamazione, una conferma di quello che già si respirava. Ho visto che l’hype è diventata una costante: l’introduzione dei large language model si è sedimentata. Oggi i robot e i device diventano assistenti. Una delle cose che mi ha più colpito è stato Rabbit (un assistente vocale portatile, ndr). Il sistema impara delle nostre skill e si passa al large action model.
Da ricercatore è diventato imprenditore. Come coniuga queste due professioni?
Nella prima lezione agli studenti spiego sempre chi sono, che cosa faccio e come vorrei trasferire agli studenti un modello di apprendimento basato sulla tecnologia. Spiego anzitutto come quest’ultima cambia il mondo in cui lavoreranno. Al termine del corso non devono conoscere banali nozioni, ma assorbire la capacità di interrogarsi sul cambiamento. Scherzando, dico che io insegno curiosità, capacità analitica e voglia di confronto. E poi anche impianti industriali.
Una cosa di cui si sente molto parlare è il Prompt engineering, in sintesi la capacità di porre domande o richieste ai software. Dovremmo impararla tutti?
La nostra capacità di sintesi e di analisi ci porta a saper fare le giuste domande. Possiamo ottenere tutte le risposte dalle macchine, ma è compito nostro porre le domande. All’AI serve sempre un contesto prima di elaborare, altrimenti si basa soltanto sulla probabilità. Il Prompt engineering sta diventando sempre di più una commodity.
Su StartupItalia abbiamo raccontato storie di persone che hanno preferito abbandonare la carriera accademica per lanciare startup. Non si rischia così che l’università perda talenti?
Partirei dal mio, che è un caso particolare. Uscito dal master ho iniziato subito la carriera universitaria in un’epoca in cui chi puntava a rapportarsi col mercato era come se toccasse l’alta tensione. Negli Stati Uniti vedevo che invece colleghi interagire con le aziende. Io mi sono trovato di fronte a un bivio: università o azienda? Ho fatto una scelta: fare il ricercatore e delegare molte attività di responsabilità nella mia nuova realtà. Se si guarda al quadro generale le cose stanno cambiando: oggi ogni consiglio di dipartimento si deve concentrare con connessioni per la ricerca di fondi. Serve un modello nuovo: investire sulla ricerca, altrimenti le persone vanno altrove. Aggiungo però una cosa: chi se ne va non è per forza più bravo di chi rimane.
A proposito di chi si sposta. Secondo l’ultimo rapporto Svimez negli ultimi 20 anni il Sud ha subìto lo spopolamento di 2,5 milioni di persone. Come si affronta una simile tendenza, tenendo conto anche delle sfide sul lavoro?
Il problema demografico è macro e non si risolve senza un politica strategica. Io senz’altro non riuscirò a vederlo risolto, ma servono decisioni, anche impopolari. Stando così le cose, la tecnologia può senz’altro essere di supporto: penso alla silver economy con device e assistenti che possono aiutare le persone. Rispetto ai giovani il discorso è diverso: un tempo si pensava che l’avvento della tecnologia avrebbe portato a un aumento costante delle capacità intellettive. Si è presto scoperto che un fruitore passivo, in realtà, non migliora. Anzi.
Discorso che si potrebbe anche agganciare al futuro delle aziende?
Le PMI non possono non tenere in considerazione che la digitalizzazione deve essere la quotidianità. La meccanizzazione di strutture soft, penso ad esempio alla contabilità, deve esserci e deve innervarsi. Il 2024 da questo punto di vista non sarà però un anno di svolta.
Sarà però un anno di elezioni, con le Europee per esempio. Parlando dell’UE: dall’AI Act allo sforzo sui chip l’impegno della Commissione c’è stato. Ma è sufficiente di fronte al contesto globale?
Se guardiamo alla capacità normativa l’UE è avanti, dai tempi della GDPR. L’AI act è un tentativo di gestione olistica di questa trasformazione, pionieristico, che dovrà essere seguito dagli altri Stati, altrimenti si va a diverse velocità. La nostra normativa però lavora in difesa, perché rincorre la tecnologia. Bisognerebbe cercare di giocare d’attacco, gestendo la complessità e senza imbrigliare la tecnologia.
Lei ha detto che l’innovazione tecnica ha superato di gran lunga la nostra evoluzione spirituale.
Il problema etico va affrontato. Padre Paolo Benanti (il presidente della Commissione Algortimi, ndr) spiega che l’etica è tutto ciò che non può essere esigibile per legge. Bisogna lavorare sull’uomo, sui ragazzi, sulla cultura. Se puntiamo a far crescere l’uomo al fianco della tecnologia c’è da divertirsi nel cambiare il mondo.