In collaborazione con Gabriella Rinaldi
Signora libertà, signorina fantasia,
così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza
con la tua nuvola di dubbi e di bellezza
Fabrizio De Andrè, Se ti tagliassero a pezzetti
Un caffè pieno di luce, in un pomeriggio d’inverno. Al tavolo siedono quattro ragazze, di epoche diverse. Una degli anni ’60, gonna a pieghe e foulard a pois; una femminista anni ’70, pantaloni a zampa d’elefante e occhiali tondi; una anni ’90, felpa e lettore cd; una contemporanea, jeans baggy (larghi, cavallo basso), t-shirt oversize, smartphone.
Sembra un’immagine generata da un’intelligenza artificiale. Vien da chiedersi quali differenze ci sono tra loro, ma anche quante sovrapposizioni possibili di pensieri o di emozioni. Chissà se sono proprio tanto diverse, o se sono l’una l’evoluzione dell’altra, ciascuna figlia del proprio tempo e delle sue stratificazioni.
Ora inseriamo nella scena un cameriere che si avvicina al tavolo e chiede: «Signorine, desiderano?».
Osservano la scena due persone sedute a un tavolo vicino, Gabriella, 31 anni, e Alessandro, 65. Aspettiamoci una specie di debate. Troveranno un accordo?
Alessandro – Aiuto, Gabri, ora che succede? La domanda di quel cameriere mi catapulta nell’archeologia. Se scavalco Io e La mia signorina stiamo bene insieme di Neffa (2001), sento la Signorinella pallida di Achille Togliani (1931); il Buonasera signorinadi Fred Buscaglione (1958), o la lettera di Totò: Signorina, veniamo noi con questa mia addirvi…
Gabriella – Sì, la conosco, la citava sempre mia nonna.
A – Non è carino.
G – Su, dai ☺
Torniamo sulla scena. Che incrocio di sguardi! La ragazza col foulard si scioglie in un sorriso, la femminista sgrana gli occhi, quella in felpa pare incredula, la contemporanea esprime sconforto.
Impacciato, il cameriere sembra voler aggiungere: “Che ho detto? non si può più dire signorina?”.
Possibile che non colga che c’è un’asimmetria sessista tra la scelta delle due forme femminili, signora e signorina, e l’univoco signore per il maschile? E poi: è ancora vero che l’identità femminile si definisce in base al legame con un uomo?
Alessandro e Gabriella, nel frattempo, si addentrano in uno dei loro soliti confronti.
Ragazzina o zitella?
G – Mi chiedi se lo percepisco come un appellativo fastidioso. Al di là di quel che penso io, mi rendo conto che la parola signorina indica un modo di rivolgersi alle donne non sposate che ha radici profonde, ed è legato a un contesto storico in cui lo stato civile contava molto e il matrimonio veniva considerato come un passaggio obbligato della vita. Quando era rivolto alle donne giovani, voleva dire che erano ancora potenzialmente disponibili al matrimonio; quando lo si usava per donne più anziane, diventava la versione edulcorata di zitella, e il sottointeso era che queste fossero non solo nubili, ma anche un po’ inacidite dell’età e dall’aver visto svanire l’ipotesi di metter su famiglia.
Proprio perché identitaria – come tutte le etichette – molte donne la cui possibilità di diventare mogli/madri svaniva per scelta propria o imposta (in alcune famiglie erano i padri a stabilire che una o più figlie si prestassero all’accudimento dei genitori), si tenevano stretto l’appellativo.
Ci sono ancora oggi, anche se rare, donne non sposate di una certa età che, quando interpellate come signora, specificano con orgoglio che invece sono signorine. In questo caso, il loro stato civile di nubili è un dato di fatto oggettivo, in nessun modo offensivo e, semmai, descrittivo della propria storia di vita.
A – Ma davvero stiamo guardando dentro una parola per la sua connotazione di anagrafe, e in particolare di stato civile? E allora aveva ragione il cameriere: non si può più dire signorina?
G – Beh, ci sono giovani donne che percepiscono signorina quasi come un insulto, così come ci sono donne giovani che invece si sentono offese quando le si chiama signora, stupite di esser considerate “vecchie”. Un titolo che magari sa solo di una galanteria un po’ antica, e che invece oggi può provocare una percezione diversa in chi se lo sente rivolgere.
In definitiva, nella maggior parte dei contesti è oggi consigliabile rivolgersi a una donna con signora, non con signorina; nel caso di una persona molto giovane (intorno ai 20 anni), in contesti informali la si può interpellare direttamente con il tu. Oppure chiedere il nome e usare quello, anche continuando a dare del lei, se dà più comfort. O, ancora chiedere alla persona come preferisce essere appellata.
Io, per esempio, trovo che l’appellativo signorina sia fastidioso. Ecco, l’ho detto! ☺
A – Hai ragione, a ben rifletterci abbiamo delle valide alternative. E comunque sapevo che ti prudeva la lingua dal fastidio.
G – Sì, è così (per entrambe le affermazioni). Quando sentiamo dire che non si può dire questa o quella parola è un’ottima opportunità per allenarci a cercare delle alternative rispettose. Ci sono sempre. Ricordi come si scherniva un uomo poco virile (si diceva anche “effemminato”)? Signorina, che in questo caso diventa un epiteto ingiurioso.
In questa parola s’intrecciano cultura, usanze e anche quei retaggi che continuiamo a portarci dietro, a volte senz’accorgercene. Come, per esempio, l’incresciosa domanda che allude all’arrivo del primo ciclo mestruale (sei diventata signorina?). Di nuovo, un chiaro legame con la possibilità di procreare, e quindi, ancora, di essere sposate. Pensiamo anche alle accezioni puramente goliardiche (non è roba da signorine).
A questo proposito, l’Accademia della Cruscadà un consiglio di buon senso: adattarci a chi abbiamo di fronte e ai cambiamenti del tempo. Facile.
Cosa c’è sotto: il fattore tempo, il fattore spazio
A – È anche vero che riflettere sulla parola signorina è come aprire un album di foto ingiallite, dove ogni scatto racconta tempi e spazi diversi, e sfumature particolari.
Il suo uso pare documentato in italiano già dal Cinquecento. Per molto tempo signorina però è stato usato in riferimento a giovani nobildonne, a prescindere dal loro essere nubili. Allora quando si è diffuso il significato, che si trova in tutti i principali dizionari, di “donna non ancora sposata”?
Un modo per indagare cosa sta sotto alle parole è curiosare tra gli spunti disseminati nel tempo:
1800-1900: l’appellativo formale per ragazza è giovane dama, pieno di rispetto, e al tempo stesso di distanza. Usato nei contesti aristocratici e borghesi, trasmetteva l’idea di una giovane da proteggere.
1900-1980:signorina diventa la norma per le donne giovani e non sposate, ed ecco il matrimonio come svolta di status. Una parola leggera, ma che inizia a pesare con l’avanzare delle lotte per i diritti.
1980-2000: signorina comincia a declinare, in favore di ragazza. Con la liberazione sessuale e la parità dei sessi, le parole si fanno più libere e meno legate alle convenzioni, sbiadiscono le etichette e il focus si sposta sulla persona.
2000-oggi: nella comunicazione informale, il nome proprioè percepito come la maggiore forma di rispetto. Chiamiamo le persone per chi sono, senza specificare età o status o altre caratteristiche.
Anche in altre lingue, poi, il movimento per la cultura inclusiva sta incoraggiando pratiche che eliminano le distinzioni non necessarie. In inglese, nella scelta tra Miss e Mrs., è emerso Ms. come un titolo neutrale che non specifica lo stato civile, guadagnando popolarità per il suo carattere inclusivo. L’inglese poi sta gradualmente riducendo l’uso di titoli, con una preferenza per i nomi o le formule di cortesia neutre. In francese, il dibattito su Mademoiselle ha portato nel 2012 alla sua abolizione dai documenti amministrativi, lasciando solo Madame per tutte le donne adulte. In tedesco, Fräulein è riconosciuto come obsoleto, offensivo, ed è preferito Frau per tutte le donne. In spagnolo,tra Señorita e Señora, in genere si preferisce Señora.
Persino in una cultura che mantiene una struttura sociale basata su livelli abbastanza rigidi di formalità e di rispetto, come quella giapponese, la lingua tende a evitare le distinzioni inutili. Usa titoli neutri come san, per uomini e donne. E anche altri come chan, per bambine o giovani donne, che può risultare infantilizzante, e sama, più formale e onorifico, per relazioni di grande rispetto.
Punti di vista diversi
A – Dunque viviamo questa parola per lo più come un’etichetta desueta e appiccicosa, o è ancora possibile vederci dentro il fascino della delicatezza, e della giovinezza?
Credo che signorina possa essere anche un termine affettuoso. Mia madre lo usava con la grazia con cui le “Signorine Buonasera”, le annunciatrici della tv, ci auguravano la buona serata; eleganti, rassicuranti, divennero volti familiari per milioni di Italiani. È anche vero che era annidata nella definizione una sfumatura che esprimeva la futilità della figura. Ruolo decorativo, limitato alla presentazione dei programmi, senza possibilità d’intervenire sui contenuti, del tutto secondario rispetto a quello di giornalisti e conduttori maschi.
Eppure quel senso di rispetto e di grazia includeva un modo gentile di rivolgersi alle donne, come accennare un piccolo inchino. Oggi suona diverso, ma può conservare quel tocco di dolcezza d’altri tempi.
Il suo uso, inoltre, è più inter-generazionale di quel che può sembrare, soprattutto quando ci si appella con tono bonario a una bambina che ha commesso una marachella: Vogliamo smettere, signorina, di fare la monella?
Fuori dalle convenzioni
G – Apprezzo le sfumature e amo la lingua e i mondi che contiene. Sono contraria a suggerire soluzioni perentorie. Eppure continuo a pensare che il termine sia davvero fuori tempo, con quel suo legame con lo stato civile. Non posso fare a meno di pensare a tutte le donne che negli anni ’70, urlando che “il personale è politico”, hanno iniziato a ribellarsi contro stereotipi e ruoli precostituiti, e all’idea del femminile subalterno e completo solo in relazione al maschile. Alle donne che hanno lottato affinché potessimo essere chiamate con il nostro nome, senza etichette limitanti. Oggi sappiamo di essere molto più di quel che un epiteto possa suggerire.
Dunque trovo che usare signorina oggi sia anacronistico e possa risultare offensivo. Sottintende una sorta d’inferiorità o una dipendenza da un’altra persona per la propria identità. Non è più accettabile nel nostro tempo. Sarebbe un’incomprensione profonda delle conquiste sociali e culturali delle donne, un camminare all’indietro.
Senza contare che spesso la mettiamo su la famiglia, eccome, ma non ci sposiamo. Come la mettiamo in questi casi?
Se poi pensiamo alle “signorine” della letteratura, vengono in mente sì donne tristi, spesso offese o tiranneggiate, come La signorina Else di Schnitzler o Eveline di Joyce, ma anche figure molto decise, che scelgono con fierezza di non sposarsi, una tra tutte Jo March di Piccole donne.
Non si può più dire niente?
Il fatto che io sia maschio, bianco e che racconti una donna a modo mio, per alcuni è un problema.
Per me è diventato molto difficile scrivere oggi.
Paolo Sorrentino, intervista su Vanity Fair (ottobre 2024)
La libertà espressiva degli uomini è davvero minacciata?
Parlare alle persone è una grande responsabilità, perché tocca identità e immaginari intimi e profondi: ciò che una persona vive in modo positivo, per un’altra potrebbe essere un limite.
Lo stesso vale, abbiamo capito, per signorina, che è molto più di una parola: è una lente che filtra sensibilità, percezioni e storie personali diverse. Magari, se accompagnata da uno sguardo gentile, da un sorriso sincero, può addirittura suonare divertente.
Le parole sono chiavi che aprono o chiudono la mente e il cuore. Se scegliamo di dire signorina, ricordiamoci del contesto e della persona cui ci rivolgiamo; e se evitiamo di dirlo, che sia per valorizzare chi abbiamo di fronte, non per un automatismo.
La lingua evolve in base ai tempi e ai luoghi, ma anche e soprattutto a chi la usa.
E le parole, anche signorina, possono essere dei ponti per avvicinarci alle altre persone.