Ha ancora senso parlare di diritto d’autore nell’era dell’Intelligenza artificiale (IA) generativa?
La capacità dell’IA di creare contenuti autonomamente solleva interrogativi su chi detenga i diritti sulle opere generate: l’autore umano, la macchina o chi ha sviluppato l’algoritmo? Questi dilemmi emergono in un contesto dominato dalla “post-verità”, dove la distinzione tra realtà e finzione è sempre più sfumata, complicando ulteriormente la tutela del copyright.
Un caso emblematico è la causa intentata dal New York Times contro OpenAI e Microsoft, accusate di aver utilizzato milioni di articoli protetti da copyright per addestrare i loro modelli di IA senza autorizzazione. Ne abbiamo parlato con Andrea Sirotti Gaudenzi, tra i massimi esperti europei di copyright. Avvocato cassazionista, docente universitario e arbitro internazionale, è autore di numerosi volumi e direttore di trattati giuridici, tra cui Il nuovo diritto d’autore. La tutela della proprietà intellettuale nell’era dell’intelligenza artificiale. Attualmente insegna nel Master di Informatica Giuridica della Sapienza di Roma ed è membro del Senato Accademico dell’Accademia Universitaria degli Studi Giuridici Europei.
Come osservava il filosofo Zygmunt Bauman, “La società moderna è una società liquida, in cui le condizioni sotto le quali agiscono i suoi membri cambiano prima che i modi di agire si consolidino in abitudini e routine.” Questa fluidità si riflette nelle sfide odierne, richiedendo un approccio dinamico e una reattività politica all’altezza della velocità dell’innovazione tecnologica.
Mentre negli Stati Uniti nasce una joint venture da 500 miliardi di dollari tra OpenAI, Oracle e SoftBank per sviluppare infrastrutture avanzate per l’IA, la Cina punta a raggiungere entro il 2035 un valore di 1,73 trilioni di RMB (circa 257 miliardi di dollari), rappresentando il 30,6% del mercato globale. Il futuro della proprietà intellettuale è in bilico: le decisioni che prenderemo oggi, ne determineranno l’evoluzione nei prossimi decenni.
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Avvocato, nell’era dell’AI generativa e dei Large Language Model ha ancora senso parlare di proprietà intellettuale?
Stiamo vivendo un paradosso complesso: da un lato, la proprietà intellettuale e i brevetti sono indispensabili, soprattutto per sostenere la ricerca; dall’altro, ci chiediamo se abbia ancora senso parlare di proprietà intellettuale nell’era dell’Intelligenza Artificiale. Basti pensare che le attuali fonti in materia di IA dedicano pochissimo spazio alla disciplina della proprietà intellettuale, lasciando di fatto un vuoto normativo su un tema fondamentale per l’innovazione e la tutela dei diritti.
È ancora possibile tutelare la proprietà intellettuale nell’era dell’IA?
Esistono varie problematiche giuridiche di difficile soluzione. C’è un legame molto stretto tra diritto d’autore e dati personali, ma l’interazione sempre più fluida e integrata tra uomo e macchina rende estremamente complesso definire e tutelare il concetto di proprietà intellettuale. Ormai, però, potrebbe essere troppo tardi: l’adozione su larga scala dell’Intelligenza Artificiale – che, attraverso i dati che condividiamo, diventa una sorta di scatola nera delle nostre vite – è solo l’ultima delle questioni da affrontare. Già con la diffusione del web 2.0 erano emerse problematiche evidenti, come la profilazione degli utenti e la carenza di informazioni e consapevolezza, sebbene all’epoca fossero spesso percepite come aspetti secondari rispetto alle loro implicazioni future.
In questi giorni si celebra il Festival della canzone italiana, a Sanremo. Anche la tutela della musica non è immune all’AI e alla pirateria…
Uno dei primi settori della creatività colpito è quello della musica. La possibilità tecnica di procedere nelle “copie” non autorizzate ha creato molti problemi all’industria musicale e alla stessa tutela della creatività. Molti ricorderanno il caso Napster, accompagnato dal tentativo di sostenere la tesi del fair use diffuso. Oggi anche il settore musicale è coinvolto dall’IA generativa, capace di “sfornare” nuove opere apparentemente originali, ma senza autore. Il problema è che bisogna sempre chiedersi se i dati utilizzati per addestrare l’AI siano stati utilizzati in maniera lecita e se la pretesa originalità sia effettiva o fittizia. La questione, ovviamente, non è solo di natura giuridica, avendo ripercussioni ben più ampie, tenuto conto di aspetti etici molto rilevanti, che coinvolgono il concetto stesso di creatività umana.
Quali strategie potrebbero essere adottate per garantire maggiore trasparenza nell’addestramento delle IA e una più chiara distinzione tra il contributo umano e quello algoritmico nella produzione creativa?
Se la creatività è un’espressione esclusivamente umana e ogni brevetto riconosce un essere umano come autore di un’opera, è evidente che, secondo le attuali normative sulla proprietà intellettuale, l’Intelligenza Artificiale non può essere considerata creativa al pari dell’intelligenza umana. Tuttavia, con l’interazione sempre più stretta tra algoritmi e utenti, diventa essenziale comprendere dove termina il contributo umano e dove inizia il supporto dell’IA.
Sembrano confini impossibili da stabilire…
I confini tra questi due ambiti sono estremamente sfumati e difficili da delineare, motivo per cui oggi assistiamo a preoccupanti attacchi alla proprietà intellettuale. Inoltre, temo che a livello collettivo non vi sia ancora piena consapevolezza della superficialità con cui concediamo i nostri dati, che vengono analizzati, suddivisi in cluster e venduti agli inserzionisti. Allo stesso modo, sappiamo ancora molto poco su come vengano addestrate le intelligenze artificiali e sulle implicazioni che ciò comporta.
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Pensando ai grandi studiosi del ‘900, chi le viene in mente in riferimento all’attuale scenario?
Karl Marx parlava di General Intellect, ovvero della somma delle competenze e delle abilità sociali all’interno dell’umanità. In questa visione, tecnologia e forme organizzative sono componenti essenziali per comprendere l’evoluzione umana e sociale. Oggi, gli algoritmi di Google e l’intero sistema che ne deriva non sono più qualcosa di esterno a noi: sono parte integrante della nostra realtà, influenzando in modo profondo il nostro modo di pensare, agire e interagire.
Il legislatore italiano è in sintonia con lo spirito dei tempi?
Purtroppo, in Italia ci sono troppe leggi e non sempre soddisfacenti. Basti pensare che uno dei più significativi interventi normativi nazionali sulla proprietà intellettuale in rete, risalente al 2008 e concepito per tutelare le immagini e le opere musicali online, è stato redatto in modo così impreciso da risultare oggi inapplicabile. Il problema è che il “dialogo” tra diritto e tecnologia non è semplicissimo. Pensare che basterebbe un po’ di buon senso unito all’applicazione dei princìpi generali dell’ordinamento.
Una lentezza non del tutto nuova…
Negli anni ’80, quando si discuteva di software per elaboratori, le prime sentenze affermavano: “Il programma per elaboratore è un aggeggio nato per sollevare dalla noia gente sfaccendata. In quanto tale, non merita protezione giuridica.” Spesso le risposte che provengono dal mondo giuridico sono poco tempestive e inadeguate.
E in Europa?
In Europa scriviamo tanto (forse troppo), ma non diamo risposte concrete: siamo troppo lenti. Pensiamo, per esempio, alla tutela dei dati: per fortuna, di recente il Garante per la privacy ha riconosciuto che l’addestramento dei sistemi di Intelligenza Artificiale avviene attraverso l’utilizzo di enormi quantità di dati personali. In definitiva, manca ancora una piena consapevolezza e una reattività adeguata a un contesto in continua evoluzione.
E dal punto di vista dei creators digitali?
Ancora oggi, a quasi vent’anni dalla nascita dei social media, la maggioranza degli utenti ignora che – a talune condizioni – ogni immagine condivisa o pubblicata diventa una risorsa utilizzabile dalle piattaforme, che possono disporne liberamente. Si tratta di leggere le disposizioni contrattuali dei vari social networks. Ma la confusione non finisce qui: basti pensare che importanti testate giornalistiche nazionali, nei loro servizi, fanno spesso riferimento generico al web, senza alcuna precisazione né remunerazione delle fonti.
In questo scenario di scarsa consapevolezza, mi dica tre cose che ognuno dovrebbe sapere sul diritto d’autore…
Prima di tutto, ricordarsi che chi crea è come un poeta: padrone indiscusso della propria opera. Prestare attenzione a come si distribuiscono e comunicano i dati, spesso con troppa disinvoltura e fiducia. E soprattutto, sapere che quasi tutto ciò che è online è protetto dal diritto d’autore e ha un legittimo proprietario.
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E sull’AI?
L’Intelligenza Artificiale non è solo quella generativa e si nasconde dove meno ce lo aspettiamo, come nei semplici filtri anti-spam. Bisogna prestare attenzione alle risposte e alle ricerche che condividiamo online: tutti i dati che mettiamo in rete, compresi quelli che non sono nostri, possono finire in luoghi di cui non abbiamo controllo. Ad esempio, quando facciamo ricerche mediche con l’AI su un problema di salute nostro o di una persona cara, automaticamente non abbiamo più il pieno controllo di quelle informazioni che inseriamo all’interno di una serie di portali e motori di ricerca.
L’AI può proiettarci in uno scenario distopico manipolando la storia e proponendo versioni “à la carte”?
La manipolazione della storia è sempre esistita, ma oggi assistiamo a un salto di scala con un impatto potenzialmente enorme. L’Intelligenza Artificiale, quando non conosce una risposta, tende a inventarla. Gli algoritmi generativi, infatti, non sono progettati per rispondere con un semplice “non lo so”. Ho personalmente sperimentato diversi sistemi di IA per ricerche storiche e posso confermare che, sullo stesso argomento, restituiscono spesso risposte divergenti e profondamente inesatte. Le allucinazioni prodotte dall’IA sono frequenti, rendendo concreto il rischio di una storia additiva, in cui informazioni inventate si mescolano a quelle reali. Tra 50 anni potremmo ritrovarci con filmati generati dall’Intelligenza Artificiale sull’Italia di oggi, ma profondamente diversi dalla realtà.
Come ci si può proteggere, inseguendo almeno un’idea di verosimiglianza?
La differenza la fa il metodo: porsi molte domande e studiare approfonditamente in anticipo. È essenziale adottare un processo continuo di verifica e critica, un approccio indispensabile nel flusso torrenziale di informazioni, immagini e opinioni che ogni giorno invadono i nostri smartphone e computer. Solo attraverso un’analisi attenta e consapevole possiamo distinguere ciò che è reale da ciò che è manipolato.
Secondo diversi indicatori internazionali, tra cui OCSE-PIAAC, il Report on the State of the Digital Decade e il rapporto Censis, l’Italia registra livelli allarmanti di povertà educativa e culturale. Possiamo almeno affidarci ai giuristi per stabilire il principio di verosimiglianza?
Oltre allo spirito critico di cui parlavo prima, dobbiamo ripartire dai fondamentali. In Europa, per quanto migliorabile, esiste una normativa sull’Intelligenza Artificiale (AI Act). Abbiamo il GDPR. La proprietà intellettuale è regolamentata. Tuttavia, il vero problema è la mancanza di coordinamento tra questi ordinamenti. Su questo fronte c’è ancora molto lavoro da fare, e bisogna agire in fretta.