«Gli HR sono la rovina delle nuove generazioni». Questo è un commento che ho ricevuto sotto un TikTok pubblicato di recente, in cui spiegavo come le modalità di selezione fossero cambiate nel tempo.
Ci sono due aspetti curiosi in questa affermazione: il primo è attribuire la colpa dell’eventuale inefficienza dei processi di selezione a chi si occupa di recruiting, senza considerare che queste persone sono semplici intermediari tra candidati e manager; il secondo è buttare la critica in un’ottica di contrasto generazionale.
Alla persona che ha scritto il commento ho risposto che gli HR sono spesso composti anche da giovani (e sì, il ruolo di screening dei CV è spesso un compito entry-level per chi inizia in questa funzione). Tuttavia, il tarlo in testa ormai era stato attivato: da quando le divisioni generazionali sono diventate un motivo di scontro? E, soprattutto, da quando la nostra età è diventata un problema sul lavoro?
Generazioni a confronto (al lavoro)
L’uso di etichette per identificare le generazioni è un fenomeno relativamente recente, nato nel XX secolo. La prima generazione a ricevere un nome fu la “Lost Generation” (Generazione Perduta), riferita ai giovani adulti cresciuti durante la Prima Guerra Mondiale. Successivamente, sociologi e media hanno diffuso termini come “Baby Boomers” (1946-1964), “Generation X” (1965-1980), “Millennials” (1981-1996) e “Generation Z” (1997-2012). L’uso di queste etichette si è diffuso soprattutto dagli anni ’80-’90, spesso per analisi di mercato e studi sociologici.
Da “vecchia” Millennial (nata nel 1982, 43 anni appena compiuti), ricordo un tiepido inizio di interesse per la nostra generazione da parte dei media. Qualche video su LinkedIn Learning intitolato “Doing marketing with Millennials” o report come quelli di Deloitte, ma siamo passati piuttosto in fretta dall’essere la generazione cool del momento a essere messi da parte.
Con la Gen Z, invece, l’attenzione mediatica è cresciuta in modo esponenziale, dai Fridays for Future di Greta Thunberg fino ad oggi, dove ogni strategia aziendale sembra contenere un riferimento a questa generazione. In un video su TikTok, ad esempio, si diceva: “Non vi accorgete che vi vedono come polli da spennare?”. Eh sì. Perché se no tutto questo interesse?
Per la cronaca, marzo 2025: sto già vedendo i primi video che parlano di come comunicare e attrarre l’attenzione dei Gen Alpha (2012-2024). Cari Gen Z, non vi angosciate nel passare il testimone, noi Millennials siamo pronti a consolarvi! Questo studio ossessivo delle generazioni, però, non aiuta a superare le barriere anagrafiche nel mondo del lavoro; anzi le accentua, rendendo più difficile l’accesso al lavoro o il cambiamento professionale dopo una certa età.
Eppure, l’età sul lavoro non è un argomento secondario, ma una vera e propria sfida imminente. Secondo Eurostat, l’età media in Italia è di 48,8 anni, mentre dati ISTAT prevedono che, tra il 2021 e il 2041, la fascia di età fino ai 24 anni subirà una riduzione del 18,5%, con una perdita di circa 2,5 milioni di giovani. La popolazione adulta tra i 25 e i 64 anni diminuirà di 5,3 milioni (-16,7%).
Secondo Avivah Wittenberg-Cox, esperta di Longevity Management già citata nella mia newsletter FARO, non possiamo più pensare alla vita come a un percorso lineare fatto di “STUDY – WORK – RETIRE” (studiare – lavorare – andare in pensione), ma piuttosto come a un ciclo più lungo e articolato in quattro fasi: “GROW – ACHIEVE – BECOME – HARVEST” (crescere – ottenere – diventare – raccogliere).
Viviamo più a lungo e dobbiamo essere attivi più a lungo: questo dovrebbe essere l’obiettivo delle politiche di welfare, ma anche delle aziende che vogliono contare su una forza lavoro adeguata, considerando la transizione economica, la scarsità di talenti e il disallineamento delle competenze.
Nonostante ciò, persiste la narrativa secondo cui la vita lavorativa è una corsa fino ai 30 anni, dopo i quali si raccolgono i frutti e ci si “accomoda” in vista del futuro. Ma diciamolo chiaramente: chi vive davvero così? Pochissimi.
Questa visione stereotipata rischia di creare aspettative irrealistiche per i giovani, causando disorientamento e disillusione. Il 71,8% degli intervistati in una recente ricerca ritiene che sia finito il tempo in cui i figli stavano meglio dei genitori. Inoltre, si pongono barriere significative al potenziale umano, in particolare quello delle donne.
Le percezioni generazionali creano divisioni (Boomer vs Gen Z) e alimentano stereotipi che limitano le persone, incasellandole in ruoli predefiniti: il Boomer è lento, la Gen X cinica, i Millennials piagnucolosi, la Gen Z impaziente e disattenta.
Come evidenziato dalla ricerca di ValoreD “Oltre le generazioni: esperienze, relazioni, lavoro”, questo battage mediatico, seppur utile per generare hype, distoglie l’attenzione dall’obiettivo reale: favorire una collaborazione efficace tra generazioni, incentivando lo scambio di competenze e apprendimento reciproco.
“Prendo un giovane, lo formo a mia immagine, pagandolo meno e facendolo crescere” è un leitmotiv ancora diffuso tra dirigenti e manager, ma che raramente si traduce in realtà, se non per gli stipendi – ahimé – rimasti pressoché invariati negli ultimi vent’anni (dati ISTAT).
Il giovane è una risorsa rara e sfuggente: da un lato, per i flussi migratori verso l’estero, dall’altro, perché sempre meno propenso a fermarsi nella prima azienda disponibile. Secondo una ricerca di Deloitte, il 43% dei Millennials e il 61% della Gen Z cambiano lavoro con una frequenza biennale.
Coinvolgere le persone nel lavoro, mantenerle attive e aggiornate lungo tutta la loro carriera: questa dovrebbe essere la strada da seguire. Tra il dire e il fare, però, resta un mare di incertezze, con qualche spiraglio di speranza.
Alcune aziende stanno già eliminando il criterio dell’età nei loro processi di selezione. Un esempio è ATON, azienda trevigiana di servizi IT, che ha lanciato per la terza volta un’accademia di formazione gratuita, senza vincoli di background, provenienza o età.
Il tema di quest’anno è “Business Development & Tech Sales”, con formazione online, training on the job basato sul merito e possibilità di assunzione anche in remoto. Le iscrizioni per la prima fase di formazione sono aperte dal 18 marzo al 6 aprile. Chissà che non possa essere un modello da seguire per altre aziende in cerca di talenti.