Difficile riassumere in poche righe il percorso che Claudia Molinari, partita da Bordighera – cittadina dell’estremo Ponente ligure – per approdare a Cambridge e Matteo Pozzi, una vita rimbalzando tra Monza e Brugherio, hanno dovuto compiere prima di conoscersi e fondare We Are Müesli, startup innovativa meneghina che ha all’attivo così tante esperienze ludiche che ormai la definizione “software house” che restringerebbe il campo d’azione ai soli videogame inizia a stare stretta.

«Siamo più un Game studio», corregge Matteo. «Non realizziamo solo videogiochi: cerchiamo di capire qual è il formato migliore per comunicare la storia che vogliamo far conoscere», aggiunge Claudia. We Are Müesli del resto ha già realizzato anche diverse escape room a sfondo culturale, come quella per il festival della Letteratura di Mantova 2023 ispirata a “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino. O Ventiquattro Elle che si rifà invece al bagaglio culturale di Gianni Rodari.
La competizione bolognese sui videogame
Tuttavia, i ragazzi di We Are Müesli hanno vinto la quarta edizione del Bologna Game Farm – per la prima volta estesa all’intero territorio nazionale, come ha sottolineato a StartupItalia Sara De Martini, project manager dell’acceleratore videoludico bolognese – con un videogioco a tutto tondo, anche se le premesse per essere unico ci sono tutte.

«In Their Shoes è un videogioco sulla quotidianità: nessuna avventura fantastica», racconta Matteo. In un mercato videoludico in cui gli idraulici salvano le principesse, un manipolo di eroi senza memoria solleva la fortuna di regni fatati e cacciatrici di taglie interstellari proteggono il cosmo da oscure minacce aliene, non c’è nulla di più coraggioso del raccontare storie di vita dai tratti banali.

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Dal primo giorno di primavera all’ultimo d’inverno, il giocatore è chiamato a indossare sette paia di scarpe per altrettanti personaggi: «Si tratta di frammenti di vita, storie intessute nello scenario urbano che ci era più famigliare – continua Matteo – ovvero quello di Milano: il tema di cercare casa, affrontare riunioni tra colleghi, vivere momenti di rara intimità con la persona amata…» «Come pure tanti attimi da milanesi imbruttiti: il tema del lavoro è sempre presente, a iniziare dalle difficoltà che comporta perderlo», gli fa eco Claudia. «C’è anche una storia che riguarda una startup», sorridono maliziosamente i due.

Matteo e Claudia sono in sintonia su tutto. «Io sono la penna», spiega il primo, facendo riferimento alla sua formazione da sceneggiatore, «mentre lei è la matita». «Devo ammettere – aggiunge scherzando Claudia – che da quando le cose si sono fatte serie mi spiace non poter firmare ogni elemento artistico delle nostre opere, ma la ripartizione continua a essere quella degli inizi».

Gli inizi cui Claudia fa riferimento sono quelli del loro incontro, quando l’artista ligure lavorava nella comunicazione in agenzie di packaging e di grafica. Nel 2009 inciampa fortuitamente in Matteo e subito provano a mettersi in proprio, sfruttando ciascuno la propria arte per creare videogiochi, benché nessuno s’intendesse (e s’intenda tutt’ora) di linguaggi di programmazione.

Il risultato è una startup nata grazie alla spinta di un programma di accelerazione di Fondazione Cariplo: «Siamo un Game Studio no profit: il taglio dei nostri videogiochi è sempre di tipo sociale: i progetti ci vengono commissionati da enti e da fondazioni. Per esempio Missione Pietrarubbia, esperienza di gioco collaborativa a squadre per le scuole secondarie di primo grado incentrata sulle opere e sulla vita del compianto artista Arnaldo Pomodoro», racconta Matteo.
«Il dialogo con gli enti e con le fondazioni è davvero la parte più esaltante del nostro lavoro – spiega Claudia – ci sentiamo infatti degli Indiana Jones: abbiamo la possibilità di entrare in archivi inaccessibili ai più, ci vengono messi in mano dei tesori inestimabili e abbiamo la missione di riportarli alla luce, ovvero di raccontarli al pubblico più vasto possibile», dettaglia con negli occhi quella luce che brilla solo in chi ama davvero il lavoro che fa.

Sviluppare videogiochi è una cosa seria
Le difficoltà del resto non sono mancate anche per colpa della schizofrenia del mercato: «è un mondo in cui le software house più grandi aumentano continuamente i budget per i titoli di punta, tripla e quadrupla A mentre gli studi più piccoli hanno enormi difficoltà di accesso al credito», ragiona Matteo. Mentre Claudia spiega: «Ogni anno è una continua ‘caccia al bando’. In Their Shoes lo abbiamo autoprodotto ma è stato possibile solo grazie a un finanziamento di Creative Europe a favore dei videogame a sfondo culturale e al Tax Credit italiano».

In totale al gioco hanno lavorato una decina di persone mentre il core team di We Are Müesli si compone di quattro professionisti, founder inclusi, già al lavoro sul prossimo videogame. Per fortuna, insomma, qualcosa si muove sia a livello nazionale sia europeo. Del resto, proprio iniziative come Bologna Game Farm consentono agli studi indipendenti di restare a galla e farsi conoscere: «Il nostro scopo – chiosa Sara De Martini, project manager dell’iniziativa bolognese – non è finanziare il singolo videogame ma permettere alle startup di spiccare il volo approntando un proprio business model». Dopodiché la partita è solo avviata, starà nella bravura dello startupper non incorrere in un game over prematuro.