Intervista al presidente di Roma Startup Gianmarco Carnovale, che racconta il suo 2015 e cosa possono fare davvero le startup per l’Italia per non perdere altro terreno
Gianmarco Carnovale, presidente di Roma Startup e imprenditore (ha lanciato da pochi mesi Scuter) sarà tra i giudici di StartupItalia! Open Summit il 14 dicembre a Milano. Attento alle dinamiche dell’ecosistema (ma attenti ad usare incautamente questa parola con lui) come al solito ha dato un giudizio piuttosto secco sul 2015 delle startup. «Un anno perso», senza giri di parole. Spiega i motivi e si leva un piccolo sassolino dalla scarpa: «La Regione Lazio non è il paradiso, ma ha messo in campo un sacco di iniziative che hanno fatto bene alle startup romane». Ecco quali.
Domanda di rito, per capire il 2015 dal tuo osservatorio, come associazione e imprenditore. Come valuti il 2015 delle startup italiane?
Dal mio punto di vista, per il sistema italiano è stato un altro anno sostanzialmente perso per aprirsi al mondo. Continuo a vedere autoreferenzialità, abuso dei termini, ignoranza diffusa anche in ruoli apicali, assenza di best practices internazionali, unite ad una ostinata volontà di raccontare per forza che ciò che accade è un grande successo. Ma se il sistema startup italiano fosse un successo attireremmo investimenti in modo massiccio, e i numeri crescerebbero, cosa che invece non accade. I fatti dicono che abbiamo urgenza di rivedere la normativa vigente in ambito startup, investimenti in capitale di rischio, crowdfunding, ed open innovation, in un processo di revisione privo di posizioni difensivistiche e che coinvolga tanto i Ministeri quanto le Authorities competenti. Finché si celebreranno solo le “vanity metrics”, ed il sistema non smetterà di mettere ai margini quelli che non si “allineano” dandosi grandi pacche sulle spalle e dicendosi vicendevolmente che sono bravi, non andremo da nessuna parte. Questo è il grande fallimento delle startup: ad oggi non hanno contaminato l’Italia con logiche di fact checking, mercato, merito, adozione di common practices. Il risultato è che ci teniamo un registro in cui più di due terzi dei soggetti presenti sono agenzie web, studi di consulenza, o imprese non scalabili che non sarebbero considerate startup in nessun altro paese al mondo.
In questo quadro a tinte fosche forse però qualcosa si salva. Parliamo di startup, quali secondo te hanno fatto bene quest’anno? Quali avresti voluto che fossero le tue?
Ho una visione limitata, da questo punto di vista: guardo al settore nel suo insieme osservando i processi e le metodologie degli operatori intermedi, le policies, i numeri generali. Avrei più facilità a dire quali di questi operatori abbiano performato meglio, nell’anno, piuttosto che parlare di startup. Tra queste conosco quelle nel mio portfolio, oltre a quelle di cui sono stato mentor o advisor, e poche altre perché particolarmente note. In ogni caso, di queste, sono molto soddisfatto dei risultati portati dal recente pivot de Le Cicogne, ma anche della traction che stanno avendo Gamepix e Cocontest.
Parliamo della tua allora, l’hai lanciata da poco. Come sta andando?
Ad oggi devo dire di essere molto soddisfatto di Scuter, la startup che ho co-fondato tornando a fare l’imprenditore dopo qualche anno tra consulenze ed acceleratori. Ma se dev’essere un’altra, direi Smartika. La trasformazione in atto nel FinTech ha potenzialità non ancora percepite dalle maggiori banche italiane, ma è un problema comune nella maggioranza delle grandi aziende che al momento fanno ancora gran confusione tra Open Innovation e CSR.
Secondo te quale valore per l’ecosistema può avere un evento come l’Open Summit (sempre che possa averne uno).
Come dico da anni, la parola “ecosistema” definisce qualcosa a carattere strettamente locale. Soprattutto nel movimento globale delle startup, sta a significare una dimensione metropolitana. Quindi per me l’Open Summit non è una raccolta dell’ecosistema, ma una festa del sistema nazionale. La certezza è che sarà un momento in cui trasmettere maggiore coesione, la speranza è che sia un’occasione per diffondere cultura. Sarebbe bello se il 2016 fosse l’anno in cui l’Italia abbandona finalmente la retorica, i falsi indicatori, il marketing attraverso le startup… ed in cui il venture business diventasse davvero un comparto produttivo con una dimensione più vicina al potenziale che ha e che non si è ancora minimamente espresso.
So che non hai apprezzato un intervento che abbiamo ospitato su StartupItalia! recentemente dove alcuni stakeholder si sono lamentati con la Regione Lazio per lo scarso supporto alle startup. Mi hai detto: «Guarda che non è così nera». Perché
Non è così nera perché da quando si è insediata la nuova giunta si sono approvate tutte o quasi tutte le richieste che l’ecosistema ha chiesto. Certo c’è bisogno di altro ma ci sono una serie di difficoltà oggettive: il commissariamento in primis. Poi ricordiamo quello che è stato fatto, gli strumenti: Il grant da 30K microseed per startup finanziato dalla regione a patto che prendano altrettanto da altri investitori o incubatori o business ange privati. Tutto senza perdere quote. Ed è uno strumento che è in piedi per 100 startup all’anno. O il fondo da 150mila euro all’anno per eventi che riguardano ecosistema per soggetti che lavorano nel mondo dell’innovazione. O ancora il fondo che si sta esaurendo di 25 milioni di venture, il POR 1.3 che funziona proprio come Invitalia Ventures, ma solo sulla regione Lazio. E si sta discutendo di togliere irap da startup, la norma è pronta e si sta aspettando l’ok del ministero dell’Economia. Insomma, non mi pare così nera. Anzi.