Una startup di ricercatori italiani a Mit di Singapore ha trovato un metodo innovativo di lotta ai tumori. Nella capitale asiatica la ricerca ha sin da subito finalizzata al mercato. E cercano nuove startup italiane
SINGAPORE – La nazionalità, la identifico quasi subito. Non per l’inglese, quasi perfetto, con solo un pizzico di accento, quanto per gli occhiali con montatura colorata, che girando per il mondo, ho visto indossare quasi solo ad altri italiani. Siamo in uno dei centri più avanzati al mondo, dove si ci si dedica a questioni come la lotta contro il cancro, la ricerca sulle staminali e altri cosette di questo tipo.
Ritrovarsi fra compatrioti, qui a Singapore, fra volti asiatici e anglosassoni che affollano i laboratori distaccati del Massachusetts Institute of Technology, fa un certo, piacevole, effetto. Non c’è tempo per dilungarsi qui, gli organizzatori incalzano, e ci sono altri laboratori da visitare, altre meraviglie da scoprire, ma dopo la fine del press tour, prendiamo accordi, e ci risentiamo per una chiacchierata su Skype.
Lui si chiama Andrea Pavesi, è a Singapore ormai da tre anni, fa parte di un team internazionale di bio-ingegneri che lavorano a stretto contatto con Boston. “All’inizio è successo tutto un po’ per caso – racconta – ho fatto l’Università al Politecnico di Milano, bio-ingegneria, e non sapevo nemmeno bene cosa fosse un dottorato. Poi, quelli che mi hanno seguito per la tesi, mi hanno spinto a fare domanda. Sono arrivato nelle prime due posizioni della graduatoria, e entrato in un programma speciale chiamato scuola inter-politecnica di dottorato”.
Il che significa avere accesso a dei fondi e un programma internazionale per passare almeno un anno in una delle migliori università al mondo (la scelta è fra Stanford o MIT, per dire.
Lui sceglie l’MIT e finisce in uno dei laboratori di ricerca del professor Roger Kamm, dove si sviluppano dispositivi microfludici: in sostanza matrici tridimensionali fatte di un materiale chiamato PDMS (polidimetilsilossano). “Ho passato un anno fantastico lì, ambiente bellissimo, atmosfera indescrivibile, bisogna provarlo per capire. Se vuoi parlare di scienza fai due passi e trovi persone informate, tutto accade in modo super dinamico”.
L’idea è quella di restare un anno lì e poi tornare e trovarsi un lavoro, un lavoro vero (“il dottorato era sempre legato all’idea dello studio, non pensavo a un impegno fisso”). Puntuale, la ruota del destino gira, e arriva l’offerta.
C’è un nuovo laboratorio MIT a Singapore, Andrea sarebbe interessato a traferirsi?
“Sono venuto qui, e ho fatto il colloquio. È andato bene e sono stato catapultato in questa nuova avventura”. Qui i fondi non sono un problema: vuoi sperimentare una cosa per la tua ricerca? Lo fai, e basta.
E non si parla di cosette.
Uno dei principali filoni di attività del laboratorio riguarda la creazione di strumenti che consentano di trovare cure personalizzate per il cancro. “Siamo ingegneri, più che biologici – mi spiega Andrea – quello che facciamo è sviluppare piattaforme e e dispositivi microfluidici, che vadano oltre i petri dish, i piattini bidimensionali dove di solito vengono coltivate le cellule”.
L’assunto di base è che essendo il corpo umano un organismo in 3D, non in 2D, per studiare adeguatamente il formarsi di una metastasi occorrono matrici cellulari a tre dimensioni.
“La metastasi funziona così: una cellula si muove all’interno dei vasi sanguigni, poi a un certo punto si ferma, si aggrappa alla parete e creare un foro. Una volta uscita crea la metastasi o tumore secondario. Questo processo non lo puoi simulare su un petri dish”.
Il gruppo di lavoro di Singapore ha sviluppato invece dei “wafer” fatti di silicio, dove vengono disegnati dei canali corrispondenti ai vasi sanguigni, dei micro capillari che scorrono all’interno della matrice cellulare.
Si parte da dei disegni CAD con cui si creano i canali. Poi si va in quella che viene chiamata “camera bianca”, dove vengono sviluppati i dischi di silicio, su cui viene depositata una resina che si indurisce quando esposta ai raggi ultravioletti. “In questo modo – spiega il ricercatore – è possibile applicare una “maschera” che protegga certe zone della resina e ne esponga altre ai raggi. Poi si lava tutto e rimane solido solo quello che è stato esposto ai raggi”.
Questa parte solida servirà a sua volta da stampo per ricavare i chip fatti di PDMS, trasparente, per cui, iniettando le cellule, è possibile osservare come si muovono nei canali, replicando in pratica in laboratorio il processo di metastasi.
“Si potrebbe usare un modello animale, ma ha un sacco di altre variabili che non puoi controllare, in vitro invece ti puoi concentrare su quello che ti interessa veramente – dice Andrea”. Vedere ad esempio cosa succede se si inietta nel chip un certo cocktail di farmaci o come rispondono le cellule in funzione di una diversa rigidità della matrice (che corrisponde a una diversa rigidità dei vasi sanguigni).
E l’aspetto forse più interessante, è che tutto questo può essere personalizzato. Si può prendere la cellula tumorale di uno specifico paziente, iniettarla nel chip e vedere come si comporta.
Con l’idea di passare dal laboratorio al mercato e commercializzare questi dispositivi, è nata una startup di cui Pavesi è uno dei quattro fondatori. Si chiama AIM Biotech ed è attualmente in fase semi-stealth ma già operativa. “Stiamo inviando i nostri chip a vari laboratori di altissimo livello in giro per il mondo e stiamo attendendo i feedback – spiega – Il sito è quasi pronto, stiamo già raccogliendo dei pre-ordini e lanceremo a breve”.
Singapore a caccia di Startup italiane
L’iniziativa è perfettamente in linea con l’approccio imprenditoriale di Singapore, dove gli scienziati vengono spinti, forse ancor più che in Usa, a trovare il modo di tradurre le loro scoperte in prodotti per il mercato. Il paese asiatico punta a diventare uno dei luoghi di punta a livello mondiale per tutto quanto riguarda la ricerca, non solo nel campo della bioingegneria, ma anche per quanto riguarda l’Ict, la tecnologia, la medicina, le energie rinnovabili e i trasporti.
Per realizzare tutto ciò sta cercando di attrarre i migliori talenti dall’estero: non solo ricercatori, ma anche startupper, che trovano nel neonato incubatore BASH (acronimo di Build Amazing Startups Here), promosso dal governo, occasioni di incontro (anche davanti al tavolo da ping pong) e un ambiente pensato per incentivare il processo creativo e gli scambi di idee.
Gli “uffici” delle startup, ad esempio, sono fatti di mobili smontabili, allungabili e modulabili, ad accentuare il senso di fluidità dell’insieme. Gli spazi sono suddivisi in una serie di “stazioni” corrispondenti a vari stadi del processo creativo: c’è l’ambiente con le startup 3D, per creare i prototipi, il “pensatoio” dove fare brainstorming o riflettere in solitudine.
Non tutto è perfetto, la sensazione è quella di un progetto ancora da rifinire, di ancora un po’ grezzo. Ma è senz’altro un luogo dove merita essere, in questo preciso momento storico, e se si vuole fare startup con un occhio all’Asia – e non solo. Ben vengano quindi iniziative come quella di Italian Angels for Growth e Italia Startup, che hanno portato una delegazione gi imprenditori a Singapore per InnovFest 2015.
A giugno c’è l’Echelon Asia Summit: da quello che mi scrivono via mail gli organizzatori, anche qui le startup italiane sarebbero benvenute.