Discutere, incontrarsi, passare la sera nei bar di Manhattan. La scena newyorkese è cresciuta anche per questo raccontano alcuni dei suoi protagonisti. E Esty al Nasdaq ha confermato che la Silicon Alley cresce tantissimo
Finalmente il mondo delle startup newyorkesi può festeggiare una “exit” miliardaria. Giovedì 16 aprile Etsy, il mercato online specializzato in prodotti artigianali, si è quotato al Nasdaq con una valutazione di 1,8 miliardi di dollari e alla fine del primo giorno in Borsa il suo valore era quasi raddoppiato. Un successo di questo tipo è importante per galvanizzare la comunità tecnologica e anche perché di solito chi lavora in una società che diventa pubblica, se ne è anche azionista dopo un po’ può vendere le azioni e mettersi in proprio, avviando una nuova generazione di startup. È così che è cresciuta la Silicon Valley e anche la Silicon Alley – cioè New York – è avviata su questa strada.
Proprio il giorno prima del debutto in Borsa di Etsy mi sono ritrovata a fare un bilancio della comunità tech newyorkese – e a ragionare su che cosa gli italiani possono imparare da questa esperienza – con tre suoi protagonisti: due italiani, il venture capitalist Alessandro Piol e lo scienziato-imprenditore Alberto Pepe, fondatore di Authorea, insieme al newyorkese doc Brian Cohen, angel investor e presidente degli Angel investor della città.
Eravamo alla Casa Italiana Zerilli-Marimò, dove il direttore Stefano Albertini ha organizzato una serie di conversazioni sul tema “Eppur si muove – Gli italiani dentro e fuori dall’Italia che ci danno speranza per il futuro”.
Ci siamo chiesti qual è il segreto del successo di New York in questo settore, perché il tech è sexy in città, come suggerisce il libro che ho scritto con Piol, “Tech and the City”, il primo e unico finora che racconta la storia della comunità di startup di NY e che è stato lo spunto della discussione.
I segreti della crescita di New York
L’industria tecnologica di NYC ha continuato a crescere negli ultimi anni, e in particolare dopo la crisi finanziaria del 2008, a un sostenuto ritmo. Oggi impiega quasi 300 mila persone ed è diventata la seconda in America – dopo la Silicon Valley – per capacità di attrazione di capitali. Nel 2014 sono stati investiti 4,5 miliardi di dollari nelle aziende high—techs cittadine, più che in quelle di Boston.
Una fondamentale componente del successo è culturale:
C’è un certo romanticismo nel mondo newyorkese delle startup, che si è evoluto anche perché New York è una bar scene
ha detto Cohen -. Qui ci si incontra, si discute, ci si diverte e si fanno affari spostandosi da un bar all’altro, la sera, a piedi, una cosa impossibile nella Silicon Valley. Qui c’è un feeling speciale, dovuto alle persone. Fra noi newyorkesi delle startup c’è un clima di calore, ce lo scambiamo tra colleghi, e tra mentor e nuovi arrivati, che ci piace aiutare”.
Pepe faceva lo scienziato a Boston, alla Harvard University e ad attirarlo a New York è stato proprio l’ambiente diverso che si respira in questa città. “A Boston c’era di tutto, un sacco di cervelli brillantissimi – ha raccontato Pepe -. Ma mi mancava la scena sociale, la bar scene come dice Brian. Avevo questo progetto di piattaforma online per collaborare fra scienziati, e in un bar di quelli giusti per le startup ho incontrato per caso Brian, che dopo poche parole mi ha chiesto sui due piedi un ‘pitch’, di spiegargli la mia idea e il possibile business”.
L’importanza di avere due sedi
È finita che Cohen ha investito nella startup di Pepe, come pure Piol, che ha ragionato così sulle differenze fra il clima a NYC e quello italiano per le startup: “Un punto fondamentale è che qui fallire è normale, è visto come un passaggio ovvio, mentre in Italia è una cicatrice. Inoltre qui c’è l’abitudine dei mentori, che fanno da ‘guida’ ai nuovi. E poi c’è il problema dei capitali: magari anche in Italia riesci a trovare soldi per iniziare una startup, ma poi per farla davvero cresce devi andarli a cercare altrove, per esempio venire qui. Non a caso il modello usato da molti, a cominciare dagli israeliani, è quello duale, della doppia ‘cittadinanza’ dell’impresa, avere cioè una sede in patria, con gli sviluppatori della tecnologia, e poi una sede per il marketing e il fund raising qui”.
Cohen ha rincarato la dose sulle differenze culturali:
“Ho appena parlato con dei tedeschi, che mi hanno detto che in Europa non solo è una vergogna se fallisci, ma se hai successo è una vergogna ancora maggiore.
“La gente pensa che hai fatto qualcosa di sbagliato”. Un’altra componente del boom tecnologico a New York è stata la spinta dell’ex sindaco Michael Bloomberg. “Era un imprenditore tecnologico lui stesso, faceva parte del clima di entusiasmo delle startup, era il primo a fare il tifo per noi. Il nuovo sindaco Bill de Blasio è ovviamente diverso, ha un’altra enfasi, l’egualitarismo e il sostegno ai poveri, che va benissimo ma è un’altra cosa”. “Comunque il governo locale non può fare nulla, se non ci sono gli imprenditori e talenti”, ha aggiunto Piol.
Ma come se la cavano gli italiani che vengono a New York a cercare investitori? Sia Cohen sia Piol ne incontrano parecchi, come incontrano giovani “startuppari” da tutto il mondo.
Alle startup italiane? Manca il design
“Se devo fare una considerazione di massima, ho notato che è quasi assente la sensibilità per il design nelle startup italiane che ho visto presentarsi qui a NYC – ha detto Cohen -. È la cosa che mi ha sorpreso di più, perché invece uno si immagina che il design sia un punto forte degli italiani. Ebbene, le startup lo usano poco e invece, soprattutto se fai una app, il design è importantissimo”. Una critica di cui i giovani alle prese con una startup in Italia devono far tesoro.
Il messaggio di speranza emerso dalla serata è che l’Italia è ricca di talenti e anche di spirito imprenditoriale. Ce la può fare a tornare a crescere, anche grazie alle startup e alle innovazioni tecnologiche. Ma certo deve fare uno scatto culturale.