W-Sense è una startup romana attiva nella Blue Economy. Abbiamo intervistato la CTO e cofounder Chiara Petrioli, a pochi giorni dalla finale della EIT Digital Challenge
«Se vogliamo che l’ecosistema delle startup deep tech in Italia cresca, non facciamoci fuorviare pensando a Mark Zuckerberg come modello». Chiara Petrioli è CTO e cofounder di W-Sense, che da ex spin-off dell’Università Sapienza di Roma è arrivato in finale alla EIT Digital Challenge, l’iniziativa che dal 2014 seleziona alcune delle migliori realtà innovative nel vecchio continente per accelerarle lungo un intero anno e introdurle all’interno di un network europeo di investitori e mentor per un percorso di access to market e access to funding. Di W-Sense vi abbiamo già parlato quando, pochi mesi fa, l’azienda ha chiuso un round da 2,5 milioni di euro, che le è servito a proseguire nello sviluppo di una tecnologia che mescola software e hardware per realizzare prodotti rivolti alla cosiddetta Blue economy, ovvero quella che cresce al di sotto di mari e oceani. «Il 70% del nostro pianeta è ricoperto di acqua. Come e perché dovremmo introdurre sistemi di Internet of Things in ambienti simili?». Parliamo dunque dell’underwater IoT.
Blue economy: un tesoro in fondo al mare
«Anche se non ne siamo consapevoli, utilizziamo moltissime risorse dal mare per la nostra vita quotidiana – ci spiega la co-founder di W-Sense, professoressa di ingegneria informatica alla Sapienza e con esperienza di ricerca negli Stati Uniti -. Il cibo che servirà per una popolazione mondiale in forte crescita verrà sempre di più dalle alghe, ad esempio. Sull’energia, c’è tutto il tema delle rinnovabili offshore. Per proteggere poi le nostre coste dobbiamo avere più informazioni possibili. Mari e oceani assorbono infine tantissima CO2 e ciò rappresenta un aspetto da favorire per mitigare il climate change». Sostenibilità, transizione ecologica, ricerca e modelli di business scalabili trovano dunque nell’acqua un catalizzatore di opportunità, sul quale la startup sta lavorando.
“Ci vogliono resilienza, visione e professionalità. Servono business development, parte commerciale, chi fa innovazione, i talenti. Questa è la base che può portarci a più deep tech di successo”
Presente sul mercato da alcuni mesi con le proprie soluzioni, W-Sense opera in un settore che la stessa Commissione Europea ha fotografato, rilevando numeri e previsioni di crescita promettenti. Così si legge nel The EU Blue Economy Report 2022: “Investire oggi 2,54 trilioni di euro in solo quattro soluzioni basate sugli oceani – produzione eolica offshore, produzione alimentare sostenibile basata sugli oceani, decarbonizzazione del trasporto marittimo internazionale, e la conservazione e il ripristino delle mangrovie – produrrebbe un beneficio netto di 14,11 trilioni di euro entro il 2050”.
W-Sense: come funziona?
Come si sviluppa dunque la tecnologia di W-Sense? «Abbiamo un dispositivo a forma di cilindro che, in acqua, integra sensori esterni e processa i dati, li comprime e tramite l’underwater wireless internet, un nostro protocollo, e trasmette in tempo reale le informazioni». Come si vede nell’immagine qui sotto, la tecnologia è strutturata in nodi, che comunicano tra di loro, ottenendo informazioni dall’ambiente marino. A quel punto è fondamentale un gateway a cui appoggiarsi, che invia a sua volta il prodotto finale a un sistema terrestre, in cui gli operatori possono tenere sotto controllo la situazione. «Siamo presenti in Norvegia, ma anche in Italia, come a Panarea e La Spezia».
“SAIPEM ci ha scelti come partner globale per i loro sistemi autonomi robotici offshore”
Il mercato W-Sense mira al B2B, in particolare alle grandi corporate nazionali e internazionali. «SAIPEM ci ha scelti come partner globale per i loro sistemi autonomi robotici offshore». Lo scorso anno l’azienda ha fatturato poco più di 2 milioni di euro e come ci ha spiegato la cofounder l’obiettivo per il prossimo è di superare i 10. «Al momento contiamo una decina di installazioni tra Italia ed estero. Abbiamo aperto un round per raccogliere 6 milioni di euro e continuare così a sviluppare la tecnologia. Operiamo fino a 300 metri di profondità, ma ci stiamo impegnando per spingerci fino a 3mila metri sott’acqua».
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A pochi giorni dalla finale alla EIT Digital Challange, abbiamo chiesto un commento a riguardo a Petrioli. «L’iniziativa ha l’obiettivo di individuare le migliori deep tech europee e siamo fieri e orgogliosi di questa possibilità». A proposito infine di deep tech siamo ritornati su una delle questioni emerse di recente durante un’incontro di presentazione sui dati da parte di CDP Venture Capital. Quanto l’Italia dovrebbe puntare su questo settore, fatto di innovazione spinta e ritorni potenzialmente importanti sugli investimenti? «Startup di questo tipo hanno fatto la differenza. Io credo che si debba cambiare mentalità, anche a livello accademico».
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Da docente e ricercatrice, Petrioli ha infatti la propria visione su come accelerare un’evoluzione, affinché dai laboratori di ricerca escano sempre più idee di impresa da mettere a terra. «Ci vogliono resilienza, visione e professionalità. Il modo più semplice è contaminare i gruppi. Servono business development, la parte commerciale, chi fa innovazione, i talenti. Questa è la base che può portarci a più deep tech di successo».