Coltivata per secoli in Italia, oggi, dopo un piccolo boom tra il 2013 e il 2018, è quasi sparita dalle nostre campagne a causa della mancanza di una legislazione organica. Ma le potenzialità, dal settore medicale all’edilizia, sarebbero enormi
Guardando vecchie foto in bianco e nero, può capitare di intravederla tra le colture in campagna come una qualsiasi pianta. Fino agli anni Quaranta, la coltivazione della canapa era più che familiare in Italia. Centomila ettari di terreno coltivato, molteplici gli usi. Il nostro Paese era il secondo produttore al mondo (dietro all’Unione Sovietica: i dati della Cina, altro grande coltivatore, non sono disponibili). Poi il mercato collassò, soppiantato dai materiali sintetici, primo tra tutti il nylon. Un crollo verticale. La discesa proseguì – ricorda Coldiretti – con la campagna internazionale contro gli stupefacenti: diverse le convenzioni sottoscritte dall’Italia a partire dal 1961. La superficie di terreno coltivata si ridusse drasticamente.
Nel 2016 una legge per la promozione della filiera (242/2016) cercò di normare il settore della cannabis sativa L. garantendo la possibilità di coltivare alcune varietà senza autorizzazione. Nel testo si parla di “norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa, quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione”.
Un endorsement in grande stile, soprattutto perché fino ad allora il riferimento era una semplice circolare ministeriale del 2002. Si crearono un’economia e una filiera. Dal 2013 al 2018 i terreni coltivati aumentarono di dieci volte, passando dai 400 ettari a circa 4.000.
Alimenti, cosmetici, semilavorati, bioedilizia: fu l’inizio di un nuovo boom, guidato dall’emiliano Luca Marola, fondatore della catena EasyJoint. Ora la società è in liquidazione e Marola è sotto processo: rischia sei anni con l’accusa di spaccio. “Il problema è che la legge, seppur animata da buone intenzioni, ma non era chiara – dice a Startupitalia -: tracciava dei limiti alla coltivazione della canapa industriale (con bassissimo contenuto di Thc, la sostanza dello “sballo”, ndr) ma non parlava del fiore”. Così, Marola rischia di pagare per tutti. “Mi difenderò in maniera strutturata: ma che vinca perda, il vuoto normativo sarà colmato dalla giurisprudenza”. Intanto il settore, che prometteva bene, si è sgonfiato.
Marola (Easyjoint): il 70% delle attività ha chiuso
“Sicuramente non ci sono più i diecimila posti di lavoro e le migliaia di aziende presenti nel biennio 2018-19” prosegue l’imprenditore. Proprio nel 2019 è iniziato il calo. “Il comparto era stato spinto dall’attenzione mediatica, dal flusso dei notiziari, che poi è scemata” continua l’imprenditore emiliano. “Credo che il 70% delle attività che avevano aperto allora abbia chiuso i battenti. E’ accaduta la stessa cosa avvenuta nel 2013 con le sigarette elettroniche”.
Foto di Herbal Hemp da Pixabay
Erano gli anni del boom dello svapo, in cui era facile vedere insegne spuntare come funghi nelle città. Poi molte chiusero. “Resiste – spiega Marola – chi ha saputo costruire un rapporto con la clientela, e ha aggiunto la capacità di spiegare i prodotti”. Come Stefano Cislaghi, da cinque anni a Milano con il suo negozio Green Utopia. Cislaghi al business della vendita ha aggiunto quello della consulenza per gli imprenditori del settore. “Cosa si vende di più? In ordine, cannabis light, oli, prodotti per fumatori. Molto più sotto, troviamo alimentari e cosmetici. Ma io e il mio socio abbiamo sempre spinto tutto, senza limitarci a puntare su quello che rendeva di più. Mi chiedo se sia stato un bene”.
“Ovviamente i margini sono calati da quando, qualche anno fa, ero l’unico in città – racconta nel suo negozio di Porta Romana, a Milano – C’è anche un problema legale: le descrizioni dei prodotti per il corpo sono molto leggere e poco persuasive, per non incorrere nemmeno potenzialmente in reati. La distribuzione da parte delle aziende, inoltre, prevede pochi campioni, che a noi servono per mostrare ai clienti le potenzialità dei prodotti. Senza quelli, uno si affida al mainstream, che costa meno, anche perché non è artigianale. A volte rimedio mettendoci del mio: annullo il guadagno per dar modo a chi è interessato di sperimentare. Se funziona, torna, altrimenti ci ho perso”.
Chiediamo: cosa andrebbe migliorato nella legge, e perché non viene fatto? “Quando discorso è molto ideologico – la replica – le argomentazioni economiche valgono meno. Forse serve una crisi vera: a quel punto, ci si renderebbe conto delle potenzialità della canapa, e non mi meraviglierei se fosse proprio la destra a modificare la norma”.
Intanto, per gli imprenditori pianificare diventa difficile. “Marola sta pagando per tutti, Easyjoint ha chiuso. Ma a me piacerebbe vedere quello che potremmo definire un business plan di Stato, che ci consentisse di immaginare il futuro. Anche dal punto di vista pubblicitario: siamo a zero. Ad esempio, non c’è modo di indicizzare la parola ‘cannabis’ nei motori di ricerca: si può inserirla, certo, ma poi il traffico non arriva sui siti”. Infine, c’è un problema di comunicazione: “Le riviste di settore trattano la canapa assieme alle droghe pesanti, quasi fossero la stessa cosa. E’ l’antiproibizionismo: gli attivisti sono tendenzialmente contrari, perché porta via attenzione alla loro causa. Ma io offro un servizio, del resto mi interesso relativamente”.
Un mercato mondiale da 17,8 miliardi di dollari
“E’ un peccato” riprende Marola “perché il mercato mondiale adesso sta andando bene. Ogni due mesi c’è una buona notizia, che sia un altro stato Usa che legalizza, oggi sono diciannove, o modifiche legislative che allentano le restrizioni in altri Paesi, creando opportunità imprenditoriali enormi”. Proprio gli Stati Uniti, secondo Marola, sono tra le giurisdizioni più avanzate. “Lì e in Canada, a luglio il consumo di canapa ha superato il consumo di tabacco, e con un dato interessante: il fumo è residuale. Il consumo avviene in altri modi, vaporizzazione, ingestione, estratti e liquidi”. E’ proprio il mercato dello svapo, che si tratti di cbd o proprio di Thc e altri cannabinoidi, a spingere di più. “A Las Vegas, alla più grande fiera mondiale di settore, metà degli stand erano dedicati a questo. Si tratta di un mercato ultratecnico, dove si fa moltissima ricerca”.
Il valore del mercato mondiale della cannabis legale nel 2021 era stimato in 17,8 miliardi di dollari (fonte: Grand View Research). Il settore si sta consolidando con acquisizioni di player più piccoli da parte dei grossi gruppi. Il 70% del valore deriva da prodotti destinati a uso medico. Quote minori a impieghi ricreativi e industriali. Dopo la batosta del Covid (calo del 29,6% delle vendite tra il 2019 e il 2020), secondo l’istituto di ricerca le aspettative convergono verso una forte espansione, a un tasso medio del 25% dal 2022 al 2030. I fattori chiave?L’aumento delle giurisdizioni che allentano i vincoli o li rimuovono e l’ampliamento dell’uso medico, ad esempio per il trattamento del dolore cronico e della nausea da chemioterapia. Ma manca – sottolinea l’istituto – una legislazione chiara. I farmacisti stentano a consigliare i prodotti per paura di incorrere in conseguenze legali.
Le aspettative parlano di una crescita dell’uso ricreativo di pari passo con l’aumento del numero di Paesi in cui si allentano le restrizioni: oltre agli Stati Uniti e al Canada, anche Uruguay e Colombia lo hanno recentemente permesso. L’idea si fa strada in Europa, mentre trova molti ostacoli in Medio Oriente e Asia. Per questo motivo, però, proprio l’Asia rappresenta il mercato a più rapida crescita.