FCA starebbe per chiedere la garanzia dello Stato italiano su un prestito di 6,5 miliardi di euro. Intanto il Governo nazionalizza il vettore di Fiumicino e stacca un assegno da 3 miliardi
Alitalia e FCA. Non potrebbero esserci realtà più diverse. La prima è una azienda decotta, che storicamente ha ingurgitato, come un buco nero, miliardi di fondi pubblici. La seconda, almeno da quando ha cambiato nome, forma e sedi, è una azienda in salute (prima della cura del compianto Sergio Marchionne sopravviveva invece grazie al medesimo assistenzialismo statale). FCA l’asfalto lo morde, anche quando è in cerca di joint venture, come ha recentemente fatto fidanzandosi con la francese Peugeot; Alitalia a terra rischia di restare per sempre proprio perché non trova partner, tanto meno commerciali. Due realtà agli antipodi, accomunate però da un dettaglio: sono state travolte dal Coronavirus e ora… bussano alla porta del ministero del Tesoro per chiedere quattrini.
La vicenda Alitalia
Alitalia si avvia, nuovamente, verso la nazionalizzazione. Una nazionalizzazione per la verità iniziata ben prima che si potessero immaginare le ricadute economiche della pandemia, lo scorso 16 marzo nel Cura Italia. Con il decreto Rilancio, ancora latitante, il governo stacca un assegno di 3 miliardi sulla posta totale di 55 nella speranza di rilanciare anche la compagnia di bandiera, sgravata di alcuni dei suoi innumerevoli debiti. L’auspicio è che questa volta Alitalia resti in volo. Ma ci credono in pochi: non bisogna certo essere aquile per aver capito che il vettore non ha mai imparato a volare. Figurarsi se potrà riuscirci nel mondo di domani, quello post pandemico, che rischia di essere meno globalizzato e, perciò, con meno aerei in cielo.
© MSG Spotters – social Alitalia
Il non detto in cui probabilmente sperano dalle parti di Fiumicino è che il Coronavirus aggredisca le low cost, facendole finire zampe all’aria e ali ben piantate a terra. Meno voli, meno vettori, meno concorrenza e forse uno spiraglio di sopravvivenza anche per chi ha così tanti debiti che ormai fatica persino a sollevarsi dal suolo, così pochi soldi in tasca che spesso ha rischiato di non mettere la benzina nei propri aerei.
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Le low cost non ci stanno a vedere volteggiare sulle loro testa gli avvoltoi statali, para-statali e affini e già promettono di ricorrere in ogni sede europea denunciando la concorrenza sleale di chi può ricorrere agli aiuti di Stato e chi vi è escluso. Un doppiopesismo per salvare posti di lavoro che potrebbe metterne a rischio molti altri.
© Alitalia profilo Fb
Il pilota della nuova Alitalia sarà il Tesoro, quindi Roberto Gualtieri, alle spalle zero ore di volo, ma in compenso finora è uscito indenne dalle turbolenze interne alla maggioranza, riuscendo a farci atterrare sani e salvi anche dopo l’ultima finanziaria. Sparito dai radar, invece, il suo decreto Rilancio. La paura è che alla Ragioneria dello Stato, tanto per restare in tema, ne abbiano fatto aeroplanini di carta per assenza di coperture delle tante misure che le variegate forze politiche hanno voluto inserirvi.
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E tra queste ci sono appunto i 3 miliardi di debito pubblico per riconquistare i cieli. Dalla Stampa di Torino fanno giustamente notare che la cifra investita sia spropositata: “una somma incredibile, se si pensa che un colosso come Air France-Klm, che dispone di una flotta di ben 546 aerei, ha un patrimonio netto consolidato di 2,3 miliardi di euro, o al 30% del capitale di Lufthansa, che con 763 aerei ha un fatturato di 39 miliardi”.
© FCA
Anche FCA vuole quattrini
Se 3 miliardi vi sembrano troppi, sappiate che FCA ne ha appena chiesti 6,5 a SACE. È lo scoop di Milano Finanza che ha comprensibilmente fatto tremare l’intero ecosistema economico italiano. Ma in realtà è doveroso specificare: mentre i 3 miliardi sono soldi che lo Stato darà alla newco che controllerà Alitalia, 6,5 miliardi è l’importo su cui FCA chiede la garanzia dello Stato (SACE fornirebbe una garanzia pubblica per l’80% dell’importo). Pantalone li dovrebbe mettere sul piatto solo laddove l’azienda non riuscisse a onorare i propri debiti. Insomma, solo nel caso FCA fallisse. E visto che fino all’altro ieri era una azienda in perfetta salute, l’ipotesi è assai remota.
Già, remota ma non assurda. Perché proprio il Coronavirus ci ha insegnato che nulla è impossibile o, per dirla come il personaggio sorrentiniano Geremia Cuoredoro (che di affari e, soprattutto, prestiti, se ne intendeva, come saprà chi ha visto L’amico di famiglia), “mai confondere l’insolito con l’impossibile“. Il mercato dell’auto a causa del Covid-19 è finito in rianimazione: in aprile le immatricolazioni sono crollate del 97,5% (chi ha stomaco e volesse altri dati, tutti nerissimi, può leggerli qui, qui e qui) e se nella Fase 2 il mezzo privato sarà preferibile a quello pubblico, difficile che, con l’incertezza e il crollo del PIL, in tanti prossimamente correrano nei concessionari per acquistare l’auto nuova. Per andare dove, poi, se si vive con la spada di Damocle di altre quarantene, altre estati trascorse tra il tinello, il salotto e il poggiolo?
© FCA
C’è poi un tema non secondario che riguarda l’internazionalizzazione vantata dal Gruppo. FCA ha diversi stabilimenti nel nostro Paese, è vero, però, oltre al presidente, l’italo-newyorkese, nipote di Gianni Agnelli, John Elkann, ha l’americano Michael Manley come amministratore delegato, almeno fino al matrimonio con la francese PSA, quando subentrerà il portoghese Carlos Tavares.
Per carità, qui siamo i primi a dire che campanilismi, nazionalismi, sovranismi sono pregiudizi sciocchi, ignoranti, barbari, soprattutto negli affari. Ma ora non si fanno questioni sulla nazionalità, quanto sull’opportunità che sia l’Italia a garantire un prestito tanto ingente a un Gruppo franco-italo-statunitense da 170 miliardi di euro di fatturato e con un valore di Borsa sui 45 miliardi. Gruppo che avrà al proprio interno Peugeot, di cui lo Stato francese (Bpifrance) è azionista per il 12% (alla pari con la famiglia Peugeot e la cinese Dongfeng Motor Co. Dopo il matrimonio le quote passeranno al 6% parimerito). Gruppo che, peraltro, ha la propria sede legale nei Paesi Bassi mentre quella fiscale sta persino fuori dai confini dell’Unione europea, a Londra, dove paga le tasse.