O tutto o niente: o rivoluzionare il mercato mondiale o restare una piccola startup. Un libro, The Upstarts, racconta la caldissima estate del 2013 di Uber. Dal round con Google alle 2 mosse, rischiosissime, che alla fine hanno fatto la differenza
Nella storia di una startup ci sono anni decisivi per gli sviluppi futuri del business. È come se tutte le opportunità (e gli ostacoli) si concentrassero in un unico lasso di tempo ed è solo la bravura del Ceo a fare la differenza, a determinare il successo, o il fallimento. Per Uber quell’anno è il 2013. Travis Kalanick ha già raccolto 3 round di finanziamento, ma si trova in una fase di stallo. Ha bisogno di tanti soldi per portare l’azienda ad avere un’espansione su nuovi mercati, come quell’asiatico e a lanciare nuovi prodotti per abbassare i prezzi delle tariffe. Allora il Ceo inizia a bussare alle porte che contano fino a quando si apre quella più importante: Google. Come si sviluppa la storia lo racconta Brad Stone all’interno del libro The Upstarts, nel quale l’autore americano racconta le origini delle più importanti startup della Silicon Valley. Ecco una sintesi dell’estratto ripreso da TechCrunch.
La calda estate del 2013 di Uber
Stone fotografa la situazione di Uber nell’estate del 2013. La startup ha già raccolto 3 round di investimento (11 milioni di Benchmark Capital e altri due round, 32 milioni in tutto da Menlo Ventures, Jeff Bezos e Goldman Sachs). Sono tanti soldi che, tuttavia, non sono sufficienti per il piano ambiziosissimo di Kalanick: espandere Uber a livello mondiale e invadere il mercato asiatico. Proprio per questo scopo, si muove alla ricerca di un quarto round.
Ma questa volta ha bisogno di un player davvero grosso a cui affidarsi. La sua attenzione finisce su Google. Il Ceo conosce David Krane, uno dei partner di Google Ventures. Krane è il ponte giusto per arrivare a Larry Page, il cofounder di Google. Kalanick ricorda il giorno del loro incontro. Dall’albergo a GooglePlex, il quartier generale dell’azienda, ci arriva con una Google Car, la macchina a guida automatica prodotta a Mountain View. È allora che in lui si accende un’altra lampadina: ricreare una flotta di auto simili per eliminare Uber dal “costo” degli autisti. Google sembra il partner giusto anche per portare avanti questo progetto.
Quando Google mette 258 milioni
L’incontro tra i due Ceo si conclude nel migliore dei modi. Poche parole, ma la promessa di lavorare insieme per sviluppare Google Maps (il servizio di cui Uber si serve all’interno della sua app). E poi c’è quell’assegno strappato di ben 258 milioni che avrebbero “accontentato” qualsiasi founder, fuorché Kalanick. La mente di Uber si muove lungo un’altra direttiva, bussando alla porta di TPG Capital, la società di equity che vanta partecipazioni in Burger King, come in American Airlines. Oltre ai soldi (alla fine TPG investirà 88 milioni) Kalanick punta a ben altro. Non altri soldi, ma un nome: David Bonderman, nel board del fondo e nel consiglio di amministrazione di General Motors. Sa che con lui in squadra avrebbe potuto più facilmente dialogare con le authority, che dal primo momento hanno ostacolato il percorso della sua azienda.
Nel team arrivano 2 campioni
Il 2013 non è tutto rosa e fiori per Uber. Il piano apparentemente perfetto di Kalanick viene messo a dura prova dalla realtà dei fatti. La collaborazione con Google si mostra più dura del previsto. Il gigante del tech non ha alcuna intenzione di cedere la “salsa magica” delle sue driveless car a Uber, che ha tutte le carte in tavola per diventare un suo concorrente diretto nel ramo. Bonderman lascia il board di General Motors, perdendo gran parte della sua influenza (in seguito il gigante delle automobili investe in Lyft, competitor diretto di Uber). Allo stesso tempo l’espansione sul mercato asiatico si rivela più costosa e problematica del previsto. Allora Kalanick si trova di nuovo sul punto di dover fare delle scelte decisive.
Questa volta non va a caccia di nuovi partner, ma punta tutto sulle risorse umane e porta in squadra due geni del management. Uno è Emil Michael che diventa il nuovo vice presidente del business development. Michael è stato a lungo corteggiato da Kalanick per la sua esperienza nel fund raising. Ex Goldman Sachs, ha lavorato come consulente hitech alla Casa Bianca. Il suo ruolo sarà decisivo nello sviluppo di UberX, il servizio con auto non lussuose e prezzi vantaggiosi, decisivo nell’espansione di Uber nel mondo.
Il secondo nome è Thuan Pham, il nuovo CTO. Pham passa alla storia per due motivi. Il primo è per la sua capacità di creare un team di ingegneri di altissimo livello che risolvono uno dei problemi dell’app che quando sovraccarica di richiesta va in tilt. Come è successo da tre anni in occasioni particolari come la notte di Capodanno. Pham lavora così bene che quel giorno tanto temuto finisce senza alcun patema d’animo. Nessun danno o guasto dell’app segnalato dagli utenti. Il secondo motivo per cui Pham passa alla storia è il complimento che riceve da Kalanick che durante una cena aziendale gli dice: “Bravo, hai fatto un grande lavoro”. A quanto pare il Ceo non è prodigo di congratulazioni con il suo team.
Due mosse che sono andate bene (anche se rischiose)
Kalanick si prende due rischi per espandere Uber in tutto il mondo. Ormai l’azienda sta puntando tutto su UberX che, tra i servizi, è quello che ha offerto le risposte migliori. Andrea Chapin (driver operation manager) capisce che c’è un grosso ostacolo alla sua diffusione: i driver non hanno soldi per comprare le auto, sono spesso immigrati con scarso credito presso le banche. Spiega a Kalanick il problema che ha individuato. Il Ceo non perde tempo e sceglie di accordarsi con alcune case automobilistiche per aiutare gli autisti di Uber a ottenere un leasing. All’inizio le aziende non vedono di buon occhio l’idea, ma la determinazione e la bravura di Kalanick porta ad aderire al programma alcuni giganti come GM, Toyota e Ford.
Il programma viene criticato perché offre prestiti subprime fin troppo onerosi, mentre non perde tempo a rilevare il veicolo nel caso in cui gli autisti ritardino a pagare una delle rate. L’altra mossa è la decisione di abbassare le tariffe di UberX del 30% in alcuni mercati come Atlanta, Baltimora, Chicago e Seattle, alcune delle città in cui la diffusione del servizio è stata più problematica. La manovra seppur rischiosa (solleva le proteste degli autisti) aumenta il numero dei consumatori e di conseguenza anche l’offerta delle corse e le adesioni dei nuovi autisti.
Fare la cosa giusta al momento giusto
Il 2013 è un anno decisivo. Ne sarebbero arrivati anche altri con Uber che ottiene altri sette round, malgrado le previsioni errate del Ceo, il quale è sicuro che si sarebbe fermato al quarto. Sembra passato un secolo da quando Kalanick in una fredda notte di Parigi nel dicembre del 2008 cerca invano un taxi e pensa a un servizio di trasporto che “si attiva solo schiacciando il tasto del telefono”. Da San Francisco Uber è arrivata in 482 città e in più di 70 Paesi del mondo. Tra i suoi ultimi investitori c’è anche un fondo sovrano dell’Arabia Saudita (3,5 miliardi), mentre prima ancora hanno messo soldi i cinesi di Baidu, il Google cinese (1,2 miliardi).
Prima di arrivare al successo di Uber, Kalanick ha collezionato due fallimenti: «Dall’insuccesso ho imparato che il tempismo è tutto nel business», ha detto. Oggi è uno dei personaggi più influenti della Silicon Valley e uno degli imprenditori più attaccati al mondo dalle politiche e dagli enti di controllo.