Intervista a Christian Sarcuni, 30 anni, founder di Pizzabo che da giovedì 27 ottobre non sarà più online. JustEat chiude il sito. Abbiamo ripercorso gli ultimi due anni, dalla favola all’epilogo triste di una storia esemplare
«Sentiamoci alle 19». Alle 19 in punto il cellulare squilla. «Scusami se ho la voce fiacca ma è stata una giornata sfiancante. Vengo adesso da un incontro in un’azienda italiana un tempo nota per le sue soluzioni tecnologiche ma adesso un po’ in difficoltà. Sì stiamo valutando di investirci con una cordata di imprenditori». La voce di Christian Sarcuni, 30 anni, però non è affatto fiacca. Domani parteciperà alla cena di addio della sua PizzaBo. La startup dell’exit da 51 milioni a Rocket Internet, una delle più grosse di sempre in Italia. La startup che dopo dodici mesi è stata rivenduta a Just Eat «un tempo il nostro principale nemico». La startup della prima vertenza sindacale. Dei 50 dipendenti in 3 mesi.
PizzaBo è stato forse il caso più clamoroso dell’ecosistema negli ultimi 5 anni almeno. Il 27 ottobre chiude. Just Eat metterà offline il sito. A Bologna stasera ci sarà una cena, l’ultima ordinazione di PizzaBo per salutare l’azienda. Ci saranno duemila persone, forse più in una località ancora segreta. «E’ tutto un po’ assurdo, sembra Beautiful» scherza Sarcuni. Ma non troppo. Abbiamo fatto con lui un punto su quello che è successo negli ultimi anni. E ci ha parlato dei suoi progetti futuri, compreso quello di diventare un «venture capitalist».
Christian devo chiedertelo: ti aspettavi che sarebbe finita così?
«No credimi non me lo aspettavo assolutamente. Quando abbiamo deciso di vendere a Rocket nel 2015 era per combattere JustEat. Non per finirne mangiati. Eravamo autofinanziati e scontrarci con un colosso che allora già fatturava 2,5 miliardi. Avevamo il loro fiato sul collo e volevamo un finanziatore. Rocket ci era sembrata la soluzione migliore. Non è stato così».
Ti sei pentito di aver venduto?
«No, ma all’inizio non volevamo. Abbiamo contrattato a lungo, pensavamo di vendere solo una parte delle quote. C’erano diversi attori che in quel periodo ci avevano contattati. Poi Rocket ci ha detto o tutto o niente e alla fine si sono presi tutto promettendoci di mantenere il marchio e due anni di grossi investimenti. Devo dire dando motivazioni comprensibili, come quella che non potevano permettersi di avere altri investitori più piccoli da contattare nelle decisioni importanti».
Tra i possibili acquirenti in quel periodo c’era anche Just Eat?
«Non posso dire chi erano gli altri perché si tratta di trattative riservate. Posso dirti che erano tutte offerte interessanti e non avremmo avuto difficoltà a vendere a loro. Ma volevamo continuare con il nostro percorso, alla fine ci interessava il marchio».
Hai mai sospettato che Rocket avesse già intenzione di vendervi a JustEat quando vi ha comprati?
«All’inizio sicuramente no. Credimi, eravamo tutti stra entusiasti. Ma già dopo qualche mese ci siamo accorti che c’erano manovre strane e ho cominciato a dubitarlo. Da allora ho cominciato a pensare che potesse finire male per tutti. Specie per i lavoratori. Poi il modo in cui ci hanno imposto certe scelte mi ha fatto aumentare i sospetti».
Che scelte?
«Ci è stato imposto man mano di avere una politica molto più simile a quella di JustEat. Hanno preteso che avessimo un catalogo più generalista rispetto al nostro, che era solo basato sulle pizze. Abbiamo cominciato a consegnare sushi e altri cibi. Dopo 4 mesi abbiamo capito che il supporto finanziario promesso scricchiolava e da lì a un anno hanno deciso di vendere. Con una trattativa che ci è stata occultata. Solo negli ultimi 5 mesi abbiamo saputo che la trattativa era in fase avanzata».
I tempi però sono sospetti…
«Quello che penso personalmente, ma non lo dico alla luce di cose che so solo io ma a quella dei fatti, non era l’idea iniziale quella di vendere, ma dopo pochi mesi, vuoi per il mercato, per i conti di Rocket, per le difficoltà, l’ipotesi ha preso slancio. Forse era un piano B dall’inizio. Ma credo che le loro promesse fossero vere, anche se poi hanno cambiato idea».
In alcuni giornali di settore è avanzata l’ipotesi che le cifre delle acquisizioni pubblicate da Rocket in bilancio non siano in realtà quelle che poi vengono corrisposte ai founder. E’ stato lo stesso anche per i vostri 51 milioni?
«Quei 51 milioni erano le valutazioni dell’azienda, la stima messa a bilancio come previsione di costo di acquisizione. Una parte di pagamento doveva essere fatta subito e una dopo. Ma l’unica cosa che posso dire è che non è coincidente con il prezzo d’acquisto. Io stesso non ho ancora ricevuto tutti i soldi. Ma non voglio scendere troppo in questo dettaglio».
Però mi pare di capire che con Rocket non sia finita bene.
Non è finita bene.
Leggi: «Ordineremo 2mila pizze per dire addio a PizzaBo.
Il mio? Un esperimento di marketing»
Ora che farà Christian Sarcuni?
«Sto valutando diverse possibilità. La prima è investire in un piccolo fondo di venture capital, di cui sto partecipando alla costituzione».
In Italia?
«Non in Italia. Diciamo in un’altra nazione europea».
Prima dell’exit non avevi troppi contatti con la scena internazionale, sbaglio?
«Ricordi bene. I contatti che ho sviluppato in questi due anni mi hanno portato spesso fuori dall’Italia dove ho incontrato molte persone che mi hanno insegnato tanto. Sì, prima della cessione non avevo contatti internazionali, ora un po’ di più».
Cosa hai fatto in questi due anni dopo l’exit?
«Il primo anno ho fatto l’ad di PizzaBo, che poi è diventato HelloFood. Gli ultimi mesi sono stati i più duri perché era evidente che non volevano più finanziare il progetto. Poi è arrivata JustEat. Nel frattempo avevamo assunto 40 persone e esteso il servizio a 36 città. Gli ultimi mesi li ricordo soprattutto per una lotta interna all’azienda».
E da marzo ad oggi cosa hai fatto?
«Mi sono riposato. Ho viaggiato anche un po’, per la prima volta dopo anni».
Mi dicevi che stai valutando di investire in un’azienda in difficoltà. Come mai?
«E’ un brand storico in difficoltà, sempre nel settore delle tecnologie che è in un momento difficile e si stava valutando con altri imprenditori di investirci. Per adesso mi sono solo avvicinato, ma in un’ottica di dover fare degli investimenti e di diversificare il portafogli ho pensato a qualcosa del genere. Rientra nella scatoletta di investimenti che sto costruendo. Mentre l’attività all’interno di un fondo è qualcosa di più vicino a quello che conosco bene, una selezione di progetti startup in cui investire».
Cosa che succede spesso a chi ha fatto exit, metti Riccardo Zacconi con CandyCrush.
«Sì per chi fa un’exit è abbastanza naturale, al di là del discorso economico, chi ha saputo finanziare e creare un bella idea e ha costruito un bel team potenzialmente dovrebbe anche saper fare il selezionatore di idee e aziende. Anche se non è direttamente».
Andrai alla cena di addio a PizzaBo?
«E certo che andrò! E’ la parte del lavoro quella romantica per uno che ha vissuto l’impresa come me. Ci sarà anche il mio cofounder Livio Lifranchi, siamo amici dalle scuole medie. Già leggere tutti quei post sulla pagina Facebook è stato molto emozionante. Tanto affetto, qualche critica a JustEat. Abbiamo accompagnato più di qualche classe di studenti in sei anni, saranno tutti lì. Ci tengo tanto ad esserci».
Arcangelo Rociola
@arcamasilum