Aldo Soligno per tre anni ha attraversato l’Europa per incontrare e fotografare persone che soffrono di una malattia rara. Ne è nato un progetto che sarà presentato a #MeetSanofi
“Ci sono fotografie che devono rimanere mentali. Ho imparato che ci sono momenti in cui è meglio abbassare la macchina fotografica e comportarsi da amico”. A dirlo è Aldo Soligno fotografo e fotogiornalista che ha firmato il progetto Rare Lives in cui racconta, tramite i sui scatti, che cosa significhi soffrire di una malattia rara. La mostra è un percorso fotografico che indaga la quotidianità, le necessità e le speranze di chi soffre e per realizzarla Soligno ha viaggiato per tre anni in sette diversi Paesi incontrando persone che combattono ogni giorno anche con la difficoltà di potersi curare.
Il primo degli appuntamenti di #MeetSanofi – in programma martedì 22 febbraio a Milano – sarà l’occasione per incontrare l’artista e conoscere, anche grazie a interventi di esperti, il mondo delle persone che soffrono di queste patologie che colpiscono almeno 30 milioni di persone solo in Europa. Si partirà proprio dagli scatti Aldo Soligno e si proseguirà con le testimonianze di chi in rete ogni giorno aggrega e racconta le malattie rare. Con la Giornata Mondiale delle Malattie Rare del 28 febbraio 2017 Rare Lives porterà a termine il terzo capitolo del suo percorso con un totale di 70 famiglie incontrate nell’arco di 3 anni, diventando il racconto più completo al mondo sulla quotidianità dei pazienti affetti da patologia.
Abbiamo chiesto a Soligno di condividere con noi le emozioni che ha provato svolgendo il suo lavoro di fotografo raccontarci che cosa ha imparato dal progetto.
Aldo Soligno, Rare Lives è un progetto che è durato tre anni e che ti ha portato in 7 Paesi, che cosa ha significato per lei?
Nella mia carriera di fotogiornalista ho raccontato molte storie e questo mi ha sempre permesso di scoprire angoli di umanità meravigliosi. Con questo progetto sulle malattie rare ho dovuto fare un ulteriore passo. Realizzare queste immagini ha richiesto sicuramente meno “azione” che documentare la guerra a Gaza o i diritti degli omosessuali in Uganda, ma ha richiesto ancora più empatia. Raccontare cosa prova una persona che deve convivere perennemente con la propria malattia non è qualcosa di semplice. Come fai a raccontare 20 o 30 anni di attesa per una diagnosi, o le 12 ore di completa solitudine che deve passare ogni settimana mentre riceve l’infusione? Il progetto è nato nella mia testa da una frase di Fabrizio de André in Un malato di cuore: “Da ragazzo spiare i ragazzi giocare, al ritmo balordo del tuo cuore malato, e ti viene la voglia di uscire e provare, che cosa ti manca per correre al prato, e ti tieni la voglia, e rimani a pensare, come diavolo fanno a riprendere fiato.” Questo ho cercato di trasmettere con le mie foto.
Che cos’ha imparato da questa esperienza?
Ciò che ho imparato dai pazienti è stato il significato della parola tenacia. Perché molti dei pazienti che ho incontrato sono riusciti, in realtà, a correre al prato. Non fisicamente, non sempre, ma almeno metaforicamente. Sono riusciti a non abbattersi e perseguire e raggiungere limiti che sembravano inarrivabili. Il nome del progetto, “Rare Lives”, ovvero vite rare, è stato ispirato da una bambina di 3 anni di nome Roberta che, nonostante la paralisi delle gambe, segue un corso di danza con bambine normodotate reinterpretando a suo modo i movimenti delle gambe. Quando vedi sei testimone da vicino di questo tipo di storie, non puoi che ammirare la resilienza dell’essere umano, la sua forza nell’accezione più bella del termine.
Com’è stato il confronto con le persone protagoniste delle sue fotografie? Come si ponevano nei suoi confronti?
L’empatia che si è sviluppata ha permesso a questo progetto di diventare quello è. Tutti coloro che ho incontrato sulla mia strada, mi hanno accolto come un loro familiare. Sono diventato di volta in volta un loro fratello, figlio, amico d’infanzia. Mi hanno accolto in casa loro, abbiamo riso insieme e ci siamo commossi insieme. È stato questo a dare forza e linfa al progetto. Questo, oltre al supporto naturalmente della Federazione Italiana Malati Rari e di Sanofi Genzyme.
Che cosa sapeva delle malattie rare prima di iniziare il progetto? Che cosa sa ora?
Purtroppo sapevo molto poco, come quasi tutti. Le malattie rare purtroppo sono più di quelle che si possono immaginare, quasi 6 mila e sono e così rare, appunto, che nessuno può avere un quadro completo di ogni patologia. Questo è senz’altro o uno dei problemi principali. Quello che ho imparato, però, è riconoscere l’importanza dell’ambiente che circonda il paziente inteso come le attenzioni e le cure, non solo farmaceutiche, che riceve.
C’è una storia che le è rimasta particolarmente impressa? Com’è riuscito a renderla con la tua macchina fotografica?
Di storie incredibili ce ne sono tante, anzi, a loro modo lo sono tutte. Del tour europeo del 2016, in particolare, mi è rimasto impresso un aspetto: l’importanza del diritto alla salute, che non si può dare per scontato. L’esempio più lampante l’ho vissuto attraverso Marlou (Olanda) e Roman (Romania). Entrambi sono affetti dalla stessa malattia, la malattia di Fabry. Una malattia metabolica che può essere controllata molto bene attraverso un trattamento farmacologico. Se si segue il trattamento si può vivere una vita quasi normale, altrimenti le conseguenze sono nefaste. Sia Marlou che Roman seguono la cura con lo stesso farmaco, ma c’è una differenza fondamentale. Marlou vive in Olanda e il governo olandese riconosce la malattia e quindi garantisce come diritto la somministrazione del farmaco. Roman invece vive in Romania e il governo non riconosce la malattia e quindi il diritto alla somministrazione del farmaco avviene attraverso un charity program. Entrambi si sottopongono allo stesso identico trattamento ma una lo ha come diritto inalienabile, l’altro no. Chi dovesse vedere affiancate le fotografie di Marlou e Roman può facilmente vedere quale dei due volti è corroso dalla tensione e dall’incertezza.
C’è uno scatto mancato? Un momento che avresti voluto catturare ma che non hai potuto prendere?
Come dice un mio caro amico, ci sono fotografie che devono rimanere mentali. Ci sono stati momenti che sicuramente avrebbero garantito immagini “forti”, di grande impatto. Ma stupire o, peggio, scioccare, non era lo scopo di questo progetto. Per questo, a volte, sono contento di aver scelto di abbassare la macchina fotografica ed essermi comportato come avrebbe fatto un amico di quelle persone e non un fotografo.
Appuntamento mercoledì 22 febbraio alle 18.30 a Milano per il primo #MeetSanofi in viale Luigi Bodio 37/b. L’evento è il primo di una serie di sei occasioni dedicate al rapporto tra healthcare, startup e tecnologia. All’appuntamento, moderato da Giampaolo Colletti di Sanofi Italia, intervengono Daniela Poggio, Sanofi Italia, Enrico Piccinini, Sanofi Genzyme, Aldo Soligno,Fotografo, Eugenio Santoro, Istituto Mario Negri, Paolo Colonnello, La Stampa, Ilaria Ciancaleoni Bartoli, (via Skype) Osservatorio Malattie Rare, Greta Barbanti, Associazione Mowat Wilson. Registratevi per partecipare!