Fondatore di Gellify, l’innovation factory che supporta l’innovazione aziendale, e di FNDX, società che si occupa di advisory a fondi di venture capital e private equity per la selezione delle startup, Fabio Nalucci è un venture capitalist, business angel, imprenditore e componente del consiglio di amministrazione di diverse startup. In un momento particolarmente dedicato per gli investimenti in Italia, dopo il rallentamento segnato lo scorso anno, che cosa manca al settore per compiere quello step che ostacola gli investimenti? E come le startup possono diventare più attrattive? Ne abbiamo parlato con il VC.
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Che cosa ostacola le startup nel diventare unicorni?
C’è un tema strutturale, che ha a che fare con la quantità di capitale a disposizione per raggiungere lo status di “unicorno” che in questo Paese è particolarmente difficile da ottenere. Inoltre, in Italia molti settori non lavorano in sinergia e si creano una serie di provincialismi che non favoriscono la proliferazione dell’ecosistema. In Francia, per fare un esempio, questo non accade perchè si tratta di una nazione che è stata in grado di aggregare piuttosto che dividere. Noi questo potenziale ce lo abbiamo avuto, ma non siamo stati in grado di sfruttarlo e, spesso, le eccellenze sono andate altrove.
E poi?
C’è anche un tema culturale: il nostro mercato interno è più piccolo degli altri e, pertanto, per le startup spesso risulta più facile crescere all’estero, almeno entro un certo volume. Di questo passo, l’Italia non sarà mai un “unicorn country” perché mancano capitali a sufficienza, manca un’aggregazione sistemica, il mercato interno è piccolo e non siamo un Paese digitale.
Cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione?
Anzitutto destinare fondi al venture capital, anche a livello istituzionale. Adesso siamo al giro di boa, alla fine di un’epoca che è stata molto inflazionata in termini di valutazioni. Ricordiamoci anche che per essere un unicorno non basta avere una valutazione sufficiente ma anche saper generare degli economics a medio termine. E non dimentichiamoci che quando si raggiunge lo status di unicorno si valuta il potenziale di crescita dell’azienda, che per gli investitori è fondamentale.
Prendiamo il caso Wework, da unicorno al fallimento. Che cosa è successo?
Quella tech company è stata valutata in maniera sbagliata. Il mercato ha fatto sì che diventasse un unicorno ma quel team non ha mai pensato realmente a questa possibilità e non è riuscito a soddisfare le capacità di impresa richieste. Così è andato tutto a rotoli.
Che cosa manca, invece, al venture capital italiano per crescere?
Anzitutto stiamo parlando di una classe imprenditoriale che si deve domandare se sta investendo bene e dare risposte agli investitori. Si deve adottare una capacità critica rispetto al lavoro fatto ad oggi. Per fare un esempio pratico, io ho aziende in portafoglio che faranno fatica ad andare avanti in questo anno appena iniziato e ci sono società che hanno bruciato anche un milione al mese per incapacità di prevedere quello che stava succedendo con l’esplosione della bolla. Però sono critico nei confronti di queste realtà. Spesso questa capacità è un po’ assente.
In che senso?
Già verso le fine del 2022 si vedeva che le cose stavano cambiando, gli imprenditori se ne sono accorti, ma nell’anno appena trascorso ho visto molta superficialità e pressappochismo nel fare impresa. Invece, soprattutto le startup, il cui core business si basa su quanto riescono a capitalizzare, devono dimostrare costantemente che l’azienda sia concettualmente sana. Il punto chiave è avere la capacità di comunicare il fatto che il proprio modello di business sia sostenibile anche per gli investitori.
Quali settori, dal tuo punto di vista, oggi sono più attraenti per gli investitori?
In FNDX privilegiamo realtà che possano crescere nel campo software e nel B2B con modelli di business realizzabili e spendibili sul mercato. Ma aldilà dei settori, il consiglio spassionato che mi sento di dare riguarda tutto l’ecosistema, che deve farsi una domanda sul che cosa gli impedisce di crescere. Per “ecosistema” non intendo soltanto le startup ma anche i venture capitalist, business angel, gli investitori e tutti i players che ci girano attorno.