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Viviamo nella società delle informazioni digitali, saperle gestire e sfruttare è un obbligo per chi vuole essere competitivo
C’era una volta la corsa alla ricerca del dato, l’informazione utile per farsi un’idea dell’altro – che per le aziende è il cliente – generata dalla mancanza di strumenti adeguati per acquisire i dati, personali e non. Trascorse un paio di decadi, lo scenario si è capovolto, con le informazioni che viaggiano veloci sotto forma di una massa omogenea travolgendo la possibilità umana di individuare i dati principali ed escludere quelli inutili, che sono contorno.
La necessità di pubblica amministrazione e aziende private, quindi, è saper dosare metodi efficaci per raccogliere e analizzare i dati, al fine di organizzarli e sfruttarli per creare servizi su misura per ogni singola persona.
I Big Data sono una priorità per le aziende
L’economia della conoscenza che contraddistingue il nostro tempo si fonda proprio sull’utilizzo delle informazioni per generare valore e sul triangolo tra innovazione e competitività per realizzare la personalizzazione dell’esperienza, fattori intrecciati l’uno con l’altro perché dal primo scaturisce il secondo e da quest’ultimo si arriva al terzo concetto, quello che assicura un vantaggio sui concorrenti, che bisogna far fruttare sotto forma di profitto.
Su tale schema si gioca oggi un’ampia fetta del business aziendale, perché chi è più abile a procacciarsi dati ha una marcia in più per comprendere a fondo il proprio target, affinare una comunicazione personalizzata e coinvolgere maggiormente l’utente/cliente.
Come accennato, il primo scoglio da superare per le imprese è l’abbondanza di informazioni disponibili online e rintracciabili su diverse piattaforme e strumenti: social network, motori di ricerca, posta elettronica, sistemi operativi e la miriade di sensori cardine dell’Internet of Things, settore in grande ascesa destinato a generare un numero enorme di dati da leggere e interpretare. Stiamo parlando dei big data, un mercato che l’anno scorso in Italia è cresciuto del 26% rispetto ai dodici mesi precedenti e che vale 1,393 miliardi di euro (fonte Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence del Politecnico di Milano). Un risultato che conferma il trend positivo degli ultimi tre anni, in cui il settore è cresciuto in media del 21% ogni dodici mesi, anche se rimane molto ampio il divario fra le grandi imprese, che si dividono l’88% della spesa complessiva, e le Pmi, che rappresentano il 12% del mercato. A trainare gli investimenti in tale direzione sono soprattutto le grandi aziende (quelle con più di 250 dipendenti), perché ormai estrapolare, gestire e interpretare i dati e delineare l’identikit su cui bisogna costruire una proposta su misura non è più una necessità, bensì un obbligo per restare sulla scena e giocarsi le proprie carte.
Il valore dei Big Data per le aziende
Per capire quanto le aziende siano consapevoli del ruolo dei Big Data e conoscano le nuove professioni che nasceranno, Modis ha svolto un’indagine nel 2018 coinvolgendo 152 referenti aziendali provenienti da tutto il territorio nazionale. I risultati della survey sono stati presentati durante il convegno “Big Data & Jobs of the Future” presso l’università IULM di Milano. Come emerge dalla ricerca rispetto al 2016 cresce il numero di persone che ritiene di avere una conoscenza approfondita del tema Big Data passando dal 12% al 17%. Da sottolineare però è il fatto che in ogni caso la percentuale resta bassa rispetto a quella di chi sostiene di avere una conoscenza nulla dell’argomento (38%). Emerge inoltre che prevale in modo assoluto l’opinione che i Big Data siano un tema da conoscere: il 96% degli intervistati infatti dichiara di percepirli come un’opportunità. Se molte aziende non hanno ancora sviluppato progetti al riguardo, cresce il numero di aziende che hanno deciso di puntare sui Big Data con nuovi progetti (22% contro il 20% del 2016), e di chi ha intenzione di farlo nel futuro (19% contro il 10% del 2016). Tra i settori percepiti come più avvantaggiati dall’impatto dei Big Data c’è sicuramente il settore commerciale e marketing. Di molto inferiori i vantaggi ritenuti importanti per il settore finance, comunicazione, IT e produzione. Secondo gli intervistati, le figure professionali in grado di lavorare con i Big Data ci sono ma sono difficili da reperire. Una tendenza che ci si augura possa invertirsi nei prossimi anni anche grazie alla nascita di nuovi corsi universitari e master che puntano a formare esperti del settore.
Big Data e formazione
Nel 2016 il MIUR aveva svolto una ricerca (potete scaricarla qui) che comparava i maggiori centri di formazione a livello europeo che si occupano di Big Data al fine di trarre delle indicazioni per il Ministero e in generale per la Pubblica Amministrazione. La fotografia che ne è uscita mostrava come in Italia si debba costruire una “cultura del dato”: imparare a raccoglierli, insegnarne l’importanza, promuovere percorsi specifici che non siano solo appannaggio di chi si iscrive a informatica. L’educazione al valore del dato non può che partire dalla scuola primaria, dove i bambini devono iniziare a sviluppare competenze digitali. Ma non devono essere solo gli studenti ad essere formati. Anche il personale scolastico e amministrativo della scuola deve avere la possibilità di seguire percorsi di formazione sui Big Data che diventano ancora più importanti quando si passa al settore universitario. Il rapporto sottolineava l’esigenza di inserire corsi introduttivi alla data science in tutti i percorsi di laurea e post-laurea, a partire dalle triennali e incoraggiare percorsi specializzati durante i percorsi magistrali e i dottorati di ricerca.
Da un’analisi comparata si è visto che mentre Regno Unito e Usa hanno tantissimi corsi di laurea e percorsi formativi legati ai Big Data, in Italia i corsi disponibili restano legati a chi sceglie le facoltà di informatica e ingegneria, mentre ci sono poche applicazioni per quanto riguarda altre aree. La Sapienza è stato il primo ateneo a laureare nel 2017 quattro Big Data Scientist anche se nelle grandi aziende c’è un approccio a formare e specializzare risorse già attive all’interno sfruttando anche corsi post universitari o specializzazioni online.
I vantaggi per le aziende
Partire dall’educazione è importante anche perché saper sfruttare la pioggia di dati assicura vantaggi alle imprese. Come ci dice la ricerca degli Osservatori del Politecnico le aziende che stanno portando avanti iniziative di Big Data Analytics hanno riscontrato vantaggi sotto più punti di vista. Stando ai dati dell’Osservatorio, praticamente nella totalità dei casi, si è riscontrato un miglioramento dell’engagement con il cliente (nel 100% dei casi). Seguono l’aumento delle vendite (91%), la riduzione del time to market (78%), l’identificazione di nuovi prodotti e servizi (67%), l’ottimizzazione dell’offerta attuale per aumentare il margine (73%) e la riduzione dei costi (56%). Oltre alla decisiva abilità nella previsione dei futuri scenari e conseguenti mosse per incrementare i ricavi, emerge quindi che un sistema di lavoro basato sullo studio delle informazioni è sempre una garanzia di miglioramenti a livello strategico e produttivo. Si guarda alla possibilità di conoscere l’orientamento della clientela soddisfacendo i rispettivi gusti, abitudini ed esigenze, rivelate appunto dai big data. Per la produttività, invece, la raccolta e l’analisi dei dati permettono di ottimizzare i processi interni a 360 gradi, intervenendo così su vendite, logistica e risorse umane, spaziando dalla gestione delle scorte che evita sprechi e riduce i costi, all’attività di controllo e manutenzione agevolate dall’analisi predittiva che permette eventuali interventi in tempi rapidi, senza dimenticare la risoluzione di potenziali zone d’ombra a livello di salute e sicurezza sull’ambiente di lavoro.
L’importanza del data scientist
Per nuotare nel mare magnum dei big data servono competenze che non si improvvisano ma si apprendono per individuare la metodologia appropriata al business di riferimento, al fine di offrire alle aziende un percorso efficace per aumentare i profitti. Questa è la finalità del lavoro del data scientist, battezzata nel 2012 dalla Harvard Business Review come la professione più sexy del 21° secolo, proprio a sottolineare che sarebbe stata una delle più richieste negli anni a venire (insieme al data analyst, colui che esplora e interpreta i dati). Per farsi un’idea della peculiarità della mansione, si può considerare l’ampio bagaglio di conoscenze che deve possedere il data scientist, cui spetta coniugare capacità d’analisi, nozioni economiche, matematiche e informatiche. Ma ci sono anche altre professioni che stanno nascendo proprio dalle esigenze dimostrate dalle aziende: dal Data Content and Communication Specialist, al social Mining Specialist, fino al Big Data Architect.
Le possibilità per chi si specializza in questo settore sembrerebbero davvero molte e ci si augura però che si possa colmare anche in quest’ambito il gender gap poiché al momento anche questo settore sembrerebbe prevalentemente al maschile. Se saper maneggiare i dati è diventato cruciale per evolversi, bisogna fare attenzione e non commettere passi falsi, anche se oggi le dinamiche di un attacco online sono le più complesse di sempre e possono compromettere pesantemente il business. II recente report Cost of a Data Breach realizzato da IBM e Ponemon Institute coinvolgendo 507 aziende statunitensi dimostra che il costo medio per il recupero da una violazione di dati personali si aggira sui 3,90 milioni di dollari. Ancora una volta quindi la formazione professionale risulta indispensabile anche perché la metà delle violazioni osservate sono state agevolate da errori umani, in particolare per l’involontaria pubblicazione dei dati.