Da circa un anno coordino diverse attività – in Rete, nelle aule universitarie, sul territorio – per cercare di valorizzare sul mercato del lavoro una rinnovata combinazione fra, da un lato, le competenze umanistiche, da ottimizzare e orientare verso le cosiddette soft skill, dall’altro, le competenze digitali, da aggiornare al sempre più diffuso inserimento dell’AI nelle aziende e professioni. Tutto è cominciato fra marzo e maggio del 2023, anche grazie a StartupItalia, che ha ospitato tre miei interventi (qui, qui e qui) sulle professioni del futuro e sulla rivalutazione delle materie umanistiche che, come diverse ricerche internazionali prevedono, ci sarà nei prossimi anni.
Che ci fosse bisogno di iniziative che facilitino l’incontro fra chi ha fatto studi umanistici e il mercato, mi era chiaro. Altrimenti non le avrei avviate. Ma la numerosità delle richieste che nell’ultimo anno mi è arrivata, non solo dal lato della domanda di lavoro, ma dalle aziende, ha superato le mie migliori aspettative. Tutto bene dunque? Non proprio.
Il problema del CV
Sembra banale, ma non lo è affatto: il CV, o curriculum vitae (o curricolo) che dir si voglia, è il problema principale che ho dovuto affrontare e affronto ogni giorno. La valorizzazione di sé, del proprio percorso di studi, delle proprie competenze ed esperienze comincia infatti da come ci si autorappresenta in un CV. Ma se non si riesce a descrivere ciò che davvero si è, si sa fare e si può offrire, usando parole che le aziende possano anzitutto capire e poi trovare vicine alle loro esigenze, la valorizzazione non c’è proprio.
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E allora lo dico chiaro: in media le persone che hanno fatto studi umanistici, non solo quelle più giovani, ma a qualunque età, non sanno valorizzarsi in un CV. Il che è sorprendente, data la proliferazione – in rete – di consigli e tutorial su “come scrivere un CV” e – fuori dalla rete – di corsi, corsini e corsetti sull’argomento. Persino se lo chiedi a ChatGPT ti dice come fare. E non dice cose sbagliate. Ancor più sorprendente è che non sappiano fare un CV persone che, venendo dall’area umanistica, dovrebbero saper scrivere. Di fatto spesso sanno farlo, ma è come se, di fronte al CV, avessero perso ogni abilità. Quali sono i problemi principali? Vediamone uno.
Scrivere un buon CV: i problemi principali
La prima conseguenza della proliferazione di prontuari su come si fa un CV è che dicono tutti più o meno le stesse cose. La seconda conseguenza è che i CV finiscono per somigliarsi. Intendiamoci: non si può certo abolire i vademecum, perché bisogna pur dare un primo orientamento.
Io stessa, nel maggio del 2021, avevo fatto una diretta su Instagram sull’argomento, che all’epoca era destinata ai miei studenti. Ancora oggi la uso nell’ambito più ampio in cui mi muovo, consigliandola non solo a ogni studente e studentessa che cerca un tirocinio, a ogni laureando o neolaureata che cerca lavoro, ma pure a chi, di qualunque età, si rivolge a me chiedendo un sostegno per cambiare lavoro, riposizionarsi, tentare scatti di carriera.
Ebbene, in quella diretta cominciavo proprio mettendo in guardia dall’omologazione: dicevo che le regole per scrivere un CV cambiano nel tempo e a seconda del settore professionale, degli obiettivi che hai e dell’azienda a cui ti rivolgi. Dicevo no al formato Europass, perché omologante, a meno che non sia espressamente richiesto (ad esempio dalla pubblica amministrazione).
Dicevo no a Word per il CV, perché ostacola la personalizzazione. Suggerivo infine, per provare strade più creative, di usare Canva, che tre anni fa era già diffuso e lo è di più oggi. Ma l’omologazione indotta da Canva (anche in versione pro), che già un po’ vedevo tre anni fa, arriva oggi al parossismo: stesse combinazioni di colori, stessi font, stesse impaginazioni, stessi modi di interpretare persino la rottura dei cliché proposti dal software.
Qualche consiglio sulla scrittura del CV
La sezione del CV più penalizzata è quella delle cosiddette soft skill o competenze trasversali. Ecco i problemi più frequenti:
1) Uso di espressioni troppo generiche, come ad esempio: capacità di organizzazione (di cosa?), creatività (in cosa?), motivazione (cosa vuol dire?), capacità di adattarsi (a tutto?);
2) Abuso di parole inglesi o di calchi dall’inglese: time management, team work, proattività, problem solving, communication skills, e così via;
3) Aggettivi e sostantivi che implicano autoattribuirsi doti e capacità senza che poi il CV faccia capire come hai di fatto acquisito e dato prova di quelle doti e capacità: inventiva, intraprendenza, gestione di gruppi, visione, curiosità, capacità di risolvere problemi. E via dicendo.
Sembra insomma che siano tutte e tutti creativi, curiosi, capaci di organizzare il tempo proprio e altrui, pieni di iniziative, senza che poi il CV descriva esperienze che facciano capire che tutto ciò ha un fondamento reale. Per non correre questo rischio, c’è ormai chi suggerisce di cancellare la sezione dedicata alle soft skill. Ma anche questo è sbagliato: come molte ricerche internazionali confermano (ad esempio l’indagine del World Economic Forum “Future of Jobs Report 2023”), le soft skill sono e saranno sempre più valorizzate dal mercato, specie con la diffusione delle intelligenze artificiali.
Come scrivere un CV all’altezza di sé
Come uscirne? La soluzione sta nella creatività. Quella vera, non dichiarata. Ma creatività non vuol dire esibire bella scrittura e colori a casaccio. Significa studiare, di volta in volta, non solo i requisiti della posizione per cui ti candidi ma, più ampiamente, lo stile, il lessico, la cultura dell’azienda o istituzione a cui ti rivolgi, per adattare il tuo linguaggio al suo e riorganizzare le sezioni e gerarchie del tuo CV in base alle loro priorità.
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Tutto ciò significa camuffare e mistificare? Assolutamente no, significa comunicare: non comunichi niente a nessuno, se non sai metterti nei suoi panni, se invece di dialogare fai un monologo, invece di capire se puoi piacere a lei o lui, piaci solo a te. Il che vale anche quando cerchi o cambi lavoro. Vedremo altri problemi del CV nelle prossime puntate.