Ricordo ancora l’entusiasmo quasi messianico che circondava le prime ondate di automazione e, oggi, l’avvento dell’Intelligenza Artificiale generativa. Le ricordo perché ci siamo ancora completamente immersi. La promessa era, ed è ancora, quella di liberare l’umanità dalla fatica, di lasciarci più tempo per la creatività, la cura, l’innovazione. Eppure, ogni giorno, ci troviamo intrappolati in riunioni che potevano essere un’email, a compilare report che nessuno leggerà e a navigare burocrazie aziendali sempre più complesse. Sembra che, invece di liberarci dal lavoro, la tecnologia stia affinando la nostra capacità di crearne di nuovo, spesso privo di scopo.

Per capire questo strano fenomeno, ci viene in aiuto un’intuizione folgorante dell’antropologo David Graeber, che nel suo saggio di qualche anno fa Bullshit Jobs (2018) ha descritto un paradosso fondamentale del capitalismo moderno: un numero enorme di persone svolge lavori che segretamente ritiene inutili, ma è costretta a fingere che abbiano un’importanza cruciale. Graeber non parlava solo di inefficienza, ma di intere categorie di ruoli: i flunkies, che esistono per far sembrare importanti i loro capi; i duct tapers, che mettono pezze a problemi che non dovrebbero esistere; i box tickers, che creano l’illusione del fare compilando scartoffie. Sebbene studi successivi abbiano ridimensionato le stime più audaci di Graeber, hanno confermato il nucleo della sua tesi: circa l’8% dei lavoratori europei (e fino al 19% negli USA) percepisce il proprio lavoro come socialmente inutile, con conseguenze devastanti per la salute mentale. Questa, che Graeber definisce una forma di “violenza psicologica”, è la cornice perfetta per analizzare cosa sta realmente facendo l’AI al nostro mondo.
Il paradosso dell’AI
La narrazione comune vuole che l’AI elimini i compiti ripetitivi, ed è onestamente almento in parte vero. Ma il paradosso è che i primi lavori a essere “ottimizzati” sono spesso quelli più concretamente utili. Pensiamo al settore sanitario: secondo l’American Medical Association, i medici vedono nell’AI uno strumento potentissimo per ridurre il carico amministrativo, come la trascrizione automatica delle visite, che può far risparmiare fino a un’ora al giorno. Lo stesso vale per l’istruzione, dove gli insegnanti possono usare l’AI per preparare lezioni e materiali, risparmiando quasi il 45% del loro tempo e dedicandosi di più agli studenti.
E i lavori inutili? Quelli, al contrario, sembrano godere di ottima salute. Anzi, l’AI rischia di rafforzarli. I ruoli descritti da Graeber sono profondamente radicati nei rituali sociali, nella burocrazia e nelle dinamiche di potere. L’introduzione di un algoritmo predittivo per le risorse umane non elimina il manager che genera lavoro per gli altri (taskmaster); al contrario, gli fornisce un nuovo potentissimo strumento per sorvegliare le performance, definire metriche e giustificare la propria esistenza. L’AI diventa un pretesto per intensificare il controllo, non per liberare le persone. Si creano così nuovi “box tickers” digitali, il cui compito è validare, correggere e interpretare i dati prodotti da macchine che avrebbero dovuto semplificare tutto.
La nascita dei “Meta – Bullshit Jobs”
Ma possiamo sicuramente spingerci oltre: l’AI non solo preserva il lavoro inutile, ma ne sta creando una nuova categoria che potremmo definire meta-bullshit jobs. Si tratta di ruoli nati per supervisionare, correggere o affiancare l’intelligenza artificiale, spesso in modo ridondante. Sono i nuovi “AI janitors”, i bidelli dell’algoritmo, che passano le giornate a ripulire il codice scadente generato da un modello linguistico o a vigilare sui chatbot per evitare che abbiano “allucinazioni”.
Queste posizioni, spesso precarie e mal pagate, sono i duct tapers del 21° secolo: esistono solo per compensare le imperfezioni di un sistema, senza creare un reale valore aggiunto. Inchieste giornalistiche, come una recente della NBC, mostrano come diverse aziende stiano assumendo freelance per correggere loghi o riscrivere articoli generati automaticamente, perché i sistemi producono risultati generici e pieni di errori. Un rapporto del MIT è ancora più caustico: il 95% dei progetti pilota con AI generativa non produce un ritorno sull’investimento, proprio perché i sistemi non imparano e non si adattano come promesso, rendendo necessario questo strato umano di “correttori”. L’AI, quindi, non elimina il lavoro inutile: lo sposta, lo trasforma in una nuova forma di manutenzione perpetua.
Lavoro come rito sociale
Perché, allora, continuiamo a perpetuare questo sistema? La risposta, o per lo meno la mia risposta, risiede in una funzione del lavoro che trascende l’economia: il lavoro come rito e come ruolo performativo. Studi della Harvard Business School hanno dimostrato che i rituali di gruppo – attività collettive con una forte componente fisica e psicologica – aumentano drasticamente la percezione di significato, la motivazione e persino i comportamenti altruistici. Un rituale ben fatto può aumentare del 16% la sensazione che il proprio lavoro sia importante.
In un mondo dove l’AI erode il contenuto produttivo di molti ruoli, la componente rituale diventa ancora più cruciale per mantenere la coesione sociale e le gerarchie. Le riunioni per commentare i report generati dall’AI, le presentazioni per “allinearsi” sulle strategie suggerite da un algoritmo, le cerimonie di “onboarding” di un nuovo software: tutto questo non serve primariamente a migliorare la produttività. Serve a rafforzare il senso di appartenenza, a consolidare la cultura aziendale e a perpetuare la narrazione che il nostro lavoro, e quindi la nostra presenza, sia indispensabile. Quando il “fare” viene meno, il “celebrare il fare” diventa l’attività principale.
Ripensare il contratto
Questa evoluzione ha un costo umano enorme. La “violenza psicologica” di cui parlava Graeber si amplifica quando sei consapevole che non solo il tuo lavoro è inutile, ma che potrebbe essere svolto meglio da una macchina. La ritualizzazione può offrire sicuramente un palliativo, un senso di comunità, ma non risolve il problema strutturale di una vita spesa in attività senza scopo.
Siamo di fronte a un bivio che interroga le fondamenta del nostro contratto sociale: per secoli, il lavoro è stato il principale meccanismo di distribuzione del reddito, di integrazione e di costruzione dell’identità. Se l’AI rende superfluo gran parte del lavoro utile, ma lascia prosperare quello inutile, ci troveremo con una società sempre più dissociata tra tempo impiegato e valore creato.
La sfida, quindi, non è come “salvare i posti di lavoro” o come inventare nuovi bullshit jobs per tenere tutti occupati: la vera sfida è re-immaginare il nostro rapporto con il lavoro, il reddito e il significato. Dobbiamo iniziare a chiederci seriamente quali attività vogliamo davvero salvaguardare: la cura, l’educazione, l’arte, la manutenzione del nostro pianeta.
Forse, la liberazione promessa dall’AI non arriverà dall’automazione del lavoro, ma dalla nostra capacità di liberarci dall’obbligo di un lavoro senza senso, immaginando nuove forme di riconoscimento e integrazione sociale. O per lo meno, farlo prima che il paradosso diventi una condanna.