Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Il codice della collaborazione di Daniel Coyle, edito da Apogeo.
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L’importanza della collaborazione
All’inizio del secolo scorso, ben prima dell’avvento della Silicon Valley, il più importante centro di invenzione e innovazione del mondo si trovava all’interno di una serie di grandi edifici anonimi nella periferia del New Jersey.
Si chiamavano Bell Labs (anche conosciuti come La- boratori Bell). Costituiti originariamente nel 1925 per contribuire alla realizzazione di una rete di comunicazione nazionale, i Bell Labs sono diventati l’equivalente scientifico della Firenze rinascimentale: una fucina di genialità collettiva che è durata fino agli anni Settanta. Guidati da Claude Shannon, una persona eclettica e brillante che amava girare per i corridoi sul monociclo mentre faceva il giocoliere, i Bell Labs e i suoi team di scienziati inventarono e svilupparono il transistor, la rete dati, le celle solari, i laser, i satelliti per le comunicazioni, il calcolo binario e la comunicazione cellulare; in altre parole, la maggior parte degli strumenti che utilizziamo nella vita di tutti i giorni.
Nel bel mezzo di quell’epoca d’oro, alcuni amministratori dei Bell Labs si incuriosirono sulle ragioni del loro straordinario successo. Si chiesero quali scienziati della Bell avessero generato il maggior nu- mero di brevetti per le loro invenzioni e se questi scienziati avessero qualcosa in comune. Iniziarono a esaminare l’archivio dei brevetti del- la Bell, in cui i brevetti erano conservati in raccoglitori organizzati in ordine alfabetico in base al cognome dell’inventore. “La maggior parte dei raccoglitori era più o meno della stessa dimensione,” ricorda Bill Keefauver, un avvocato che lavorava nell’ufficio brevetti.
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“Ma alcuni raccoglitori si distinguevano subito per il loro spessore, decisamente superiore a quello di tutti gli altri. Queste erano le grandi menti creative che avevano depositato decine e decine di brevetti. Erano circa in dieci”. Gli amministratori esaminarono i dieci inventori, alla ricerca di un filo conduttore. Queste menti super creative avevano la stessa specializzazione? Lo stesso percorso formativo? Lo stesso background fa- miliare? Dopo aver preso in considerazione e scartato innumerevoli ipotesi su possibili legami, scoprirono un aspetto in comune che non aveva a che fare con la loro identità, bensì con un’abitudine condivisa: quella di pranzare regolarmente nella mensa dei Bell Labs con un silenzioso ingegnere svedese di nome Harry Nyquist.
Questo risultato era a dir poco sorprendente. Non perché Nyquist non fosse molto conosciuto (lo era, essendo stato il pioniere di importanti progressi nella telegrafia e nell’amplificazione a retroazione), ma in un luogo rinomato per i suoi leader dinamici ed eccentrici, Nyquist rappresentava tutto il contrario: un luterano mite e dal sorriso gentile, noto soprattutto per la sua pacata affidabilità.
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Cresciuto in una fattoria svedese, si approcciava al lavoro con una disciplina d’altri tempi. Ogni mattina si svegliava alle 6:45 in punto, andava in ufficio alle 7:30 in punto e si assicurava di rientrare a casa sempre per le 18:15, per cenare con la famiglia. La sua abitudine più idiosincratica era quella di scegliere occasionalmente di tornare a casa con il traghetto invece che con la metropolitana (gli piaceva prendere una boccata d’aria).
Era così ordinario da essere quasi invisibile. In altre parole, la persona più importante in uno dei luoghi più creativi della storia si è rivelata essere la persona che quasi tutti ignoravano. Ecco perché è importante analizzare più da vicino le sue qualità. A detta di tutti, Nyquist possedeva due qualità importanti. La prima era il calore. Riusciva a far sentire le persone apprezzate; ogni descrizione contemporanea lo dipinge come una persona “paterna”. La seconda qualità era la sua inesauribile curiosità. In un panorama caratterizzato da svariati ambiti scientifici, egli riusciva a coniugare l’ampiezza e la profondità delle conoscenze con il desiderio di cercare connessioni.
“Nyquist era un uomo con molte idee e molte domande,” ricorda Chapin Cutler, ingegnere dei Bell Labs. “Attirava le persone, le faceva riflettere”. “Nyquist eccelleva soprattutto in una particolare attività, forte- mente incoraggiata dalla Bell in quegli anni,” racconta Keefauver. “Le persone che lavorano in una qualsiasi attività, in un qualsiasi progetto, parlano del loro progetto con qualcuno che sta lavorando a qualcosa di completamente diverso, per vedere le cose da un’altra prospettiva. Persone come Harry Nyquist potevano cogliere ciò che qualcuno stava facendo, proporre nuove idee e chiedere: «Perché non provi a fare questo?»”. Quando ho incontrato i gruppi per la stesura di questo libro, ho conosciuto molte persone che possedevano un carattere cordiale e cuioso, così tante che ho iniziato a pensare fossero tutti dei sosia di Nyquist.
Erano educati, riservati e abili ascoltatori. Emanavano sensa- zioni positive e rassicuranti. Possedevano una conoscenza approfondi- ta che abbracciava diversi settori e un’attitudine a porre domande in grado di alimentare la motivazione e le idee (in genere, il metodo più efficace per trovare un Nyquist è quello di chiedere alle persone: Se volessi farmi un’idea del modo in cui funziona la vostra cultura incontrando una sola persona, chi sarebbe questa persona?) Se consideriamo le culture di successo come dei motori per la cooperazione, allora i vari Nyquist sarebbero le candele.
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La persona che ho incontrato che rappresenta al meglio questo processo è Roshi Givechi. Roshi Givechi lavora presso l’ufficio di New York di IDEO, l’azienda internazionale di design con sede a Palo Alto, in California. Il ruolo di IDEO nel mondo moderno è paragonabile a quello dei Bell Labs. IDEO ha progettato, tra le altre cose, il mouse originale della Apple, le penne per l’insulina per i diabetici e il tubetto di dentifricio verticale.
Ha vinto più premi di design di qualsiasi altra azienda nella storia. Il gruppo è composto da 600 dipendenti suddivisi in piccoli team e incaricati di affrontare sfide che vanno dalla progettazione di piani di intervento a livello mondiale in caso di calamità alla costruzione di una borsetta con ricarica per smartphone e molto altro ancora. Ufficialmente, Givechi è una designer.
Ufficiosamente, il suo ruolo è quello di catalizzatore itinerante: viene coinvolta in diversi progetti e aiuta i team a destreggiarsi nel processo di progettazione. “Quando i team sono bloccati, o se c’è un problema di dinamica, Roshi diventa una specie di maga,” racconta Duane Bray, partner di IDEO. “Riesce in modo sorprendente a sbloccare i team, a porre domande in grado di stabilire un legame tra le persone e di ampliare le possibilità. La verità è che non capiamo esattamente come ci riesca. Sappiamo solo che funziona molto bene”.
Givechi, una donna minuta sulla quarantina, indossa ampie gonne con grandi tasche. Ha capelli scuri e ricci e occhi rapidi e scuri, con rughe di espressione agli angoli. Quando la incontro, non cerca in alcun modo di affascinarmi: niente battute, niente chiacchiere prolungate. Non proietta nulla dell’energica teatralità che si incontra in molte persone che svolgono un lavoro creativo. Al contrario, irradia una soddisfacente tranquillità, come se ci si fossimo già incontrati molte altre volte. “A livello sociale, non sono esattamente una chiacchierona,” spiega Givechi. “Amo le storie, ma non sono la persona al centro della stanza che racconta la storia. Sono la persona in disparte che ascolta e fa domande. Di solito sono domande che possono sembrare ovvie, semplici o inutili. Ma mi piace farle perché sto cercando di capire cosa sta succedendo davvero”.
Le interazioni di Givechi con i vari team si svolgono in gran parte in quelli che IDEO chiama Flight, riunioni regolari dell’intero team che si svolgono all’inizio, a metà e alla fine di ogni progetto (la versione di IDEO del BrainTrust o dell’AAR). Givechi si approccia a ogni Flight osservando la situazione dall’esterno. Fa le sue ricerche, soprat- tutto tramite colloqui, per conoscere i problemi affrontati dal team, sia dal punto di vista della progettazione (quali sono le barriere?) sia dal punto di vista delle dinamiche del team (dov’è l’attrito?).
Quindi, tenendo presente quanto detto, riunisce il gruppo e pone domande volte a far emergere le tensioni e ad aiutare il gruppo a fare chiarezza su loro stessi e sul progetto. La parola che usa per descrivere questo processo è emergere. “Mi piace il termine connessione,” dice Givechi. “Per me ogni conversazione si svolge allo stesso modo, perché si tratta di aiutare le persone ad andarsene con un maggior senso di consapevolezza, entusiasmo e determinazione. Le persone sono molto diverse tra loro. Quindi bisogna trovare soluzioni diverse per far sì che le persone si sentano a proprio agio e si sentano incoraggiate a condividere ciò che pensano davvero. Non è una questione di risolutezza, ma di scoperta. Per me, si tratta di porre le domande giuste nel modo giusto”.
Quando chiedo di Givechi ai suoi colleghi, questi sottolineano un paradosso: è allo stesso tempo gentile ma severa, empatica ma anche tenace. “Roshi ha un’indole molto forte,” dichiara Lawrence Abrahamson, responsabile del design di IDEO. “Non espone un programma, ma naturalmente un programma c’è, ed è una sorta di guida gentile. E uno degli strumenti più importanti nella sua cassetta degli attrezzi è il tempo. Dedica molto tempo, è paziente, continua a conversare e ad assicurarsi che le conversazioni procedano correttamente”. “È sempre un momento di incontro con Roshi,” spiega Peter Antonelli, direttore del design.
“C’è sempre una sorta di provocazione, lo fa per spronarci, per aiutarci a pensare al di là di ciò che abbiamo immediatamente davanti. E di solito inizia mettendo in discussione le cose più ovvie. Non è mai conflittuale, non dice mai: «stai facendo la cosa sbagliata». È un processo naturale, incorporato nella conversazione”. Osservare Givechi mentre ascolta è come guardare un abile atle- ta in azione. Ascolta soprattutto con gli occhi, caratterizzati da una sensibilità al cambiamento di umore e di espressione simile a quella di un contatore Geiger. Rileva i minimi cambiamenti e reagisce pron- tamente. Se percepisce un briciolo di tensione su un argomento, lei lo segnala e prosegue con una domanda volta a esplorare delicatamente le ragioni di tale tensione.
Quando parla, si ricollega costantemente agli interlocutori mediante brevi frasi (Forse hai vissuto un’esperienza simile a questa… Il tuo lavoro potrebbe essere simile… Il motivo per cui mi sono fermata in quel momento è…) che forniscono un segnale costante di connessione. Vi sentite a vostro agio nell’aprirvi, nel rischiare, nel dire la verità. Sembra quasi una magia, ma in realtà è il frutto di anni di pratica.
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Da bambina, Givechi usava un registratore a cassette per registrare la sua voce mentre leggeva i suoi libri preferiti più e più volte, affascinata dal modo in cui le minime variazioni di tono e di tempistica poteva- no mutare il significato. Da studentessa universitaria, mentre studiava psicologia e design, si offrì volontaria per assistere i non vedenti e scrisse la sua tesi universitaria sulla danza e la coreografia. Ricorre al concetto di danza per descrivere le abilità di cui si avvale con i team di progettazione di IDEO: trovare la musica, sostenere il partner e seguire il ritmo.
“Non mi percepisco come un direttore d’orchestra,” spiega. “Sono più che altro una persona che sprona. Faccio funzionare la coreografia e cerco di creare le condizioni ottimali”. Un anno fa, IDEO decise di diffondere le abilità di Givechi in tutta l’organizzazione. Le chiesero di creare un elenco di domande che i team potessero porsi reciprocamente, per poi fornire questi elenchi ai team di progettazione come strumenti per favorire il loro migliora- mento. Per esempio, eccone alcune:
- quello che mi entusiasma di questa particolare opportunità è…;
- lo ammetto, quello che non mi entusiasma di questa particolare opportunità è…;
- in questo progetto, vorrei assolutamente migliorarmi in…
La particolarità delle domande di Givechi è la loro trascendente semplicità. Non hanno tanto a che fare con il design quanto con la vo- lontà di coinvolgere le emozioni più profonde: la paura, l’ambizione, la motivazione. È facile immaginare che, affidate a un’altra persona, queste domande potrebbero risultare banali e incapaci di stimolare la conversazione. Il vero potere dell’interazione risiede infatti nella segnalazione emotiva bidirezionale in grado di creare un’atmosfera di connessione che pervade la conversazione. “Userei il termine discreta per descriverla,” spiega Abrahamson. “Lei è modesta e spiazza gli altri perché è così aperta, disponibile all’ascolto e premurosa. Roshi ha la capacità di fermarsi completa- mente, di interrompere quello che le passa per la testa e di focalizzarsi completamente sulla persona e sulla domanda in questione e per vedere dove condurrà la domanda. Non cerca di portarti dove vuole lei, mai. Riesce davvero a capire il tuo punto di vista, e questo è il suo potere”.
“Potremmo descriverla con il termine empatica, un’espressione molto tenera e gentile, ma non sarebbe corretta,” afferma Njoki Gi- tahi, progettista senior della comunicazione. “Il lavoro di Roshi im- plica una comprensione critica di ciò che stimola le persone, e ciò che stimola le persone non è sempre la gentilezza nei loro confronti. Conosce le persone così bene da sapere di cosa hanno bisogno. A volte hanno bisogno di sostegno e di elogi. Ma a volte ciò di cui hanno bisogno è una tiratina d’orecchi, un promemoria per ricordare loro che devono lavorare di più, una spinta a provare cose nuove. Questo è ciò che lei offre”.
“Ascolta con attenzione, sente quello che hai detto e ti chiede cosa significa, approfondendo il tema,” racconta Nili Metuki, consulente del design. “Non vuole lasciare le discussioni irrisolte, nemmeno quando si tratta di argomenti scomodi. Soprattutto quando si tratta di argomenti scomodi”. A questo punto dobbiamo chiederci: cosa si nasconde in quel frangente, in quel momento di genuina e vulnerabile connessione stile Nyquist? Vale a dire, possiamo scrutare all’interno di tale momento per capire cosa sta realmente accadendo? È una domanda che il dottor Carl Marci si è posto per gran parte della sua carriera.
Marci, neurologo e docente ad Harvard, ha cominciato ad interessarsi all’ascolto durante un seminario di medicina che ospitava una serie di terapeuti non occidentali. Questi terapeuti non erano convenzionali e utilizzavano una notevole gamma di metodi scientificamente discutibili (per esempio, praticando massaggi in cui le mani non toccavano il paziente o somministrando gocce d’acqua con percentuali di ingredienti prossime allo zero) eppure ottenevano risultati notevoli. Uno dei motivi, ha spiegato Marci, è il legame che il terapeuta instaura con il paziente.
“Ciò che questi terapeuti avevano in comune era il loro essere ottimi ascoltatori. Si sedevano, facevano una lunga anamnesi e conoscevano a fondo i loro pazienti,” racconta Marci. “Erano tutte persone incredibilmente empatiche, abili a entrare in contatto con le persone e a creare un rapporto di fiducia. È stato allora che ho capito che la componente fondamentale non era la cura, ma l’ascolto e la creazione di un legame. Era questo l’aspetto che dovevamo studiare”. Marci ideò un metodo che consisteva nel filmare le conversazioni monitorando la risposta galvanica della pelle, la variazione della resistenza elettrica che misura l’eccitazione emotiva. Scoprì che per la maggior parte del tempo le curve di entusiasmo di due persone impegnate in una conversazione avevano poca o nessuna relazione l’una con l’altra. Ma scoprì anche casi particolari, durante certe con- versazioni, in cui le due curve si sincronizzavano perfettamente. Marci chiamò questi momenti concordanze. “Le concordanze si verificano quando una persona è in grado di reagire in modo genuino all’emozione percepita nella stanza,” spiega Marci. “Si tratta di recepire la situazione in modo empatico per poi intervenire con un gesto, un commento o un’espressione in grado di creare una connessione”.
“Non è un caso che la concordanza avvenga quando c’è una perso- na che parla e l’altra che ascolta,” commenta Marci. “È molto difficile essere empatici quando sei tu a parlare. Parlare è molto complicato, perché devi pensare e decidere cosa dire, e tendi a rimanere intrappolato nella tua testa. Cosa che non succede quando ascolti. Per ascoltare veramente qualcuno devi perderci tempo. Non c’è percezione dell’individuo, perché non lo stai facendo per te. Lo stai facendo per raggiungere l’obiettivo: connettersi completamente a quella persona”.
Marci ha associato l’aumento delle concordanze all’aumento dell’empatia percepita: più concordanze si verificano, più le due persone si sentono vicine. Inoltre, la variazione in termini di vicinanza non avviene gradualmente, bensì improvvisamente. “Spesso succede da un momento all’altro,” spiega. “La relazione si trasforma rapida- mente quando riesci ad ascoltare veramente, ad essere estremamente presente con l’altra persona. È come una svolta: «Eravamo così, ma ora interagiremo in un altro modo, ed entrambi capiamo che è successo»”.